Lezione 30 - La filosofia dell’Ellenismo 1: Lo Stoicismo.
Classi 3°A/B/C Linguistico - Lez. 30
La filosofia Ellenistica 1 - Lo Stoicismo
Contesto storico - culturale
L’impero di Alessandro e la sua frantumazione
L’avventurosa spedizione che porta il giovane Alessandro a spingere le sue conquiste fino all’Oceano Indiano segna una frattura irreversibile nel corso della storia. In poco più di un decennio, quello che precede la morte di Alessandro, avvenuta nel 323 a.C, l’indipendenza delle libere città - stato greche é travolta e le fondamenta politiche del mondo classico sono irrimediabilmente sconvolte. Solo considerando queste circostanze storiche e politiche del mondo classico si capisce il senso di crisi e l’angoscioso bisogno di sicurezza tipiche dell’ellenismo, termine coniato nell’Ottocento dallo storico tedesco Gustav Droysen per indicare il periodo storico che va dalla morte di Alessandro alla conquista romana dell’Egitto nel 30 a.C.
Il potere si trasferisce nelle corti delle grandi monarchie in cui si frantuma l’Impero alla morte di Alessandro e le città circoscrivono la loro capacità decisionale alla sola amministrazione municipale.
Venendo meno la libertà, espressioni come politica, giustizia, democrazia, che erano ancora centrali nella riflessione di Platone, non individuano più problemi aperti o urgenti da affrontare. Il cittadino, ora diventato suddito, non si interessa più a tali questioni. La vita collettiva non é più al centro dell’attenzione dell’uomo, ma l’obiettivo da indagare é la vita individuale. Sono infatti i problemi come l’esistenza, il dolore, la morte o la felicità ad interessare maggiormente i filosofi ellenistici, la cui riflessione segna una frattura sconosciuta ai tempi di Platone, spingendo l’interesse in modo prepotente dalla società all’individuo.
In questo quadro, la conquista della Grecia da parte dei Romani nel II secolo a. C. non rappresenta una novità traumatica, le scuole filosofiche greche continuano anzi a prosperare e giocano un ruolo di primo piano negli avvenimenti politici dell’epoca favorendo l’incontro fra culture diverse. I conquistatori della Grecia vengono infatti conquistati a loro volta dalla filosofia greca trovando in essa un sistema di pensiero adeguato a sostenere il ruolo di protagonista globale verso cui si avvia la Repubblica Romana. Sebbene i Romani non hanno impresso nuovi spunti alla filosofia, ai Romani si deve la trasmissione dell’antico sapere e l’approfondimento di alcuni temi specifici.
La filosofia nelle scuole.
Il primo effetto della negazione della libertà politica, che caratterizza l’epoca ellenistica, é la trasformazione dei processi di elaborazione e trasmissione del sapere. La filosofia non può più essere vissuta come libera discussione collettiva: se il dialogo é stato la procedura fondamentale attorno a cui, nel V-IV secolo a. C., Socrate e Platone hanno organizzato la loro riflessione, ora la pratica filosofica comincia ad essere intesa come insegnamento e i libri, che già esistevano nell’età classica, diventano ora uno strumento fondamentale della diffusione del sapere. Nasce una nuova istituzione, sconosciuta in epoca classica, la scuola, che é un luogo in cui ci si reca per ricevere dottrine già prestabilite e non per contribuire attivamente alla loro elaborazione, come avveniva nell’Accademia platonica o nel Liceo aristotelico. Le nuove istituzioni, che registrano una decadenza netta dello spirito di ricerca, si trasformano presto in circoli chiusi e per pochi privilegiati. La discussione al loro interno é scarsa, così come sono scarsi, e a volte polemici, i contatti con le scuole avversarie. Ciò produce in breve tempo delle posizioni rigide e la creazione di tradizioni vincolanti. La tendenza a non poter discutere le dottrine della propria scuola porta al dogmatismo, l’atteggiamento tipico di chi rifiuta di mettere in discussione le proprie idee, ritenendole infallibili. I nuovi seguaci stoici ed epicurei devono seguire un preciso iter di studi e da questo insegnamento rigido e sistematizzato il sapere viene suddiviso in tre settori:
- la logica, che comprende anche la gnoseologia e l’attuale psicologia;
- la fisica, che include anche la metafisica e la teologia;
- l’etica, in cui é compresa anche la politica.
Le gerarchie all’interno delle diverse scuole sono molto rigide e formalizzate, dato che il caposcuola fornisce solitamente un insegnamento categorico, ossia sottratto a una libera discussione. Sempre più importante, quindi, diventano la sua figura e il suo carisma personale. È un mutamento spiegabile anche con l'influsso della sapienza orientale, da sempre fondata su un intenso e personale rapporto fra discepolo e guru («maestro» in sanscrito). Anche se, vi sono differenze fra le scuole, in genere solo gli studenti più avanzati negli studi hanno la possibilità di incontrare il maestro e rivolgergli domande direttamente. Il suo prestigio è funzionale al proselitismo, che comporta l'assunzione di metodi che oggi chiameremmo propagandistici, in quanto tendono a pubblicizzare nel modo migliore la scuola al fine di attrarre nuovi adepti. In alcuni casi, quali quello di Epicuro (341-270 a. C.), questo processo porta a una vera e propria divinizzazione del caposcuola.
Le scuole non sono però l'unica sede di elaborazione filosofica. In contrapposizione polemica con queste rigide istituzioni si sviluppano altre tendenze che, usando un'espressione moderna, potremmo chiamare movimenti filosofici, fra i quali scetticismo e cinismo sono i più importanti. Rifacendosi in vario modo all'umanesimo e alla maieutica socratici, questi movimenti rimangono sempre volutamente non organizzati e si caratterizzano per un atteggiamento radicale e contestatore, antierudito e spesso addirittura anticulturale.
Anche se la rivalità enfatizza le differenze, é possibile individuare alcuni tratti comuni a tutte le scuole ellenistiche. Comune é la focalizzazione su problemi di ordine etico affrontati dal punto di vista del soggetto individuale. A quali condizioni si può essere felice? Come é giusto impiegare il tempo della vita? Come affrontare la malattia, il dolore, la vecchiaia, la perdita delle persone care? Qual’é il significato dell'esistenza? Alla filosofia non é più assegnato un compito teoretico, ma pratico; più che la verità dell'essere, essa deve insegnare l'arte di vivere, ossia le condizioni di praticabilità di un'esistenza giusta e felice. Per questa via, proponendosi un fine eminentemente consolatorio e terapeutico, la filosofia tende a fondersi con la psicologia.
Scopo della filosofia é curare i mali dell'anima, in un certo senso proprio come il dottore cura quelli del corpo. Questa idea della filosofia come terapia esistenziale, capace di consolare l'individuo e aiutarlo a convivere con le sue angosce, diventa un tratto comune a tutte le scuole. Il paragone con la medicina rappresenta forse qualcosa di più di una semplice metafora, perché in certe scuole (quella epicurea in particolare) il rapporto tra caposcuola e allievo sembra ispirarsi a quello tra medico e paziente. In ogni caso, nessun filosofo ellenistico eccepirebbe all'argomento di Epicuro secondo cui le parole di quei filosofi che non curano alcuna passione umana sono inutili. Come non v’é nessuna utilità di un'arte medica che non liberi il corpo dai suoi mali, così non v’é n’é della filosofia, se non libera l'anima dalle sue passioni. Coerente con questa metafora é l'idea, tanto comune a tutte le scuole ellenistiche, quanto innovativa rispetto alla tradizione classica, che tutti g1i individui possano accedere ai benefici di questa filosofia compassionevole, senza distinzione di sesso, età e razza, cosi come avviene per la medicina.
L'Impero realizzato da Alessandro Magno ha un'estensione enorme, comprendendo non solo la Grecia, l'Egitto e il Medio Oriente, ma anche la Persia e alcune zone della regione indiana. Sebbene proprio alla vastità di queste conquiste si debba, appena dopo la morte di Alessandro, la frantumazione dell'Impero in regni indipendenti, la dimensione sovranazionale rimane un tratto caratteristico delle nuove entità politiche e questa novità ha effetti notevoli sulla mentalità collettiva. I Greci consideravano gli stranieri alla stregua di selvaggi incapaci di cultura, denominandoli nel loro complesso «barbari», un termine che ridicolizzava i balbettii («bar-bar») con cui questi cercavano di esprimersi correttamente. L'istituto della schiavitù, fondamentale nell'economia della Grecia classica, era strettamente connesso a questi pregiudizi. Ora, per contro, si fa strada l'idea che la comunità umana non possa essere delimitata da alcuna frontiera linguistica, culturale o religiosa.
Anche l'istituto della schiavitù comincia ad essere criticato. Nella Politica, Aristotele, nel IV secolo a. C., teorizzava che i barbari, proprio in quanto esseri inferiori, sono schiavi «per natura». Al contrario, comincia ora a farsi strada l'idea di una universale dignità di tutti gli esseri umani. Ciò non porta a una fine immediata dello schiavismo, ma almeno comporta l'inizio di una battglia ideale contro i pregiudizi. Epicuro é il primo filosofo ad ammettere gli schiavi nella propria scuola e gli stoici insegnano che l'unica vera schiavitù é quella dell'ignoranza. E un fatto emblematico che due grandi personaggi della scuola stoica saranno un imperatore, Marco Aurelio (121-180 d. C.) e uno schiavo liberato, Epitteto (50 ca. - 138 d. C.), entrambi accomunati dall'indifferenza per il loro ben diverso status sociale.
Comune a tutte le filosofie ellenistiche é il punto di partenza, l'idea cioè che la filosofia serva soprattutto ad affrontare i problemi dell'esistenza individuale, come la felicità, la morte, il dolore ecc. Comune a tutte é anche l'obiettivo finale della ricerca, riassumibile nella formula della imperturbabilità, condizione esistenziale da intendersi in senso letterale come «privazione di ogni turbamento» (passioni, sentimenti, emozioni, desideri, bisogni). Diversi però sono i mezzi elaborati per raggiungere lo scopo. La via scettica passa attraverso il riconoscimento dell'impossibilità di qualsivoglia etica sistematica e la proposta della sospensione del giudizio. Le scuole stoica ed epicurea tentano invece di elaborare una teoria dogmatica dell'etica avvalendosi dell'apporto della logica e della scienza. Un punto comune a entrambe é la critica alla società, accusata di sviare l'individuo dai veri valori naturali a cui, invece, si deve tomare. Le due scuole divergono però riguardo al principio su cui fondare l'imperturbabilità: gli epicurei pongono in primo piano la ricerca del piacere, gli stoici il senso del dovere, espressione nell'individuo della razionalità universale. Ma non mancano punti di coincidenza: anche il piacere epicureo, infatti, deve essere legittimato da un calcolo razionale e le passioni vanno, se non addirittura estirpate dall'animo umano come vorrebbero gli stoici, almeno poste sotto il controllo della ragione, secondo quello che diventa un luogo comune della mentalità ellenistica. Un punto di contrapposizione riguarda l'atteggiamento tenuto nei confronti della società, da fuggire secondo gli epicurei, da migliorare con il proprio contributo secondo gli stoici.
Lo stoicismo: tutto é logos
Il termine «stoicismo» viene dal greco Stoa poikile, che significa «portico dipinto», il luogo di Atene dove Zenone di Cizio, il fondatore della scuola, inizia a tenere le sue lezioni attorno al 300 a. C. Lo stoicismo sarà per oltre cinque secoli la filosofia egemone nel mondo antico, prima greco e poi romano, ed é logico che una tanto lunga vicenda attraversi fasi differenti. Si é soliti distinguere tre periodi:
1) stoicismo antico (III-II secolo a. C.), caratterizzato dalle figure dei tre primi scolarchi, Zenone, Cleante e Crisippo;
2) stoicismo medio (11-1 secolo a. C.), caratterizzato dall'incontro e dalla parziale fusione con altre dottrine, secondo un approccio eclettico e sincretistico;
3) stoicismo tardo o romano (1 secolo d. C.), ricco di figure notevoli, quali Seneca, Epitteto e Marco Aurelio.
Nonostante la grande fama goduta nell'antichità da questi tre primi scolarchi, per due buoni motivi non tratteremo separatamente le loro dottrine. Il primo é la carenza di documenti, che rende difficile separare i loro apporti specifici alla dottrina della scuola. Il secondo e più rilevante motivo, é che la filosofia stoica si caratterizza per un alto grado di sistematicità e di coerenza interna, tale da rendere relativamente marginali gli apporti personali. Questa sistematicità, del resto, é essa stessa una conseguenza del punto centrale di tutta la dottrina, ossia dell'esistenza di un principio razionale immanente e operante a tutti i livelli. Da questo logos, identificato con la divinità, discendono sia l'ordine del pensiero umano, sia l'ordine della natura, sia l'ordine del comportamento morale. Per questo, come gli epicurei, anche gli stoici suddividono il loro insegnamento secondo tre corsi distinti: logica, fisica ed etica. Solo un giusto pensiero (logica) permette di capire la natura delle cose (fisica), e solo l'insieme di queste scienze permette di sottomettere il comportamento alla ragione (etica).
La logica
Un giusto pensiero si traduce in un giusto linguaggio. Ma che cosa é il linguaggio? A partire dal v secolo a. C., ossia da Parmenide, questa domanda era stata considerata importante da ogni filosofo greco e Aristotele era giunto alla conclusione che si potesse considerare il linguaggio come una specie di specchio del mondo: l'analisi delle procedure linguistiche, a partire dall'uso delle parole, potrebbe essere una via per indagare le strutture non solo del pensiero, ma anche della realtà stessa. Su questo sfondo si capisce l’importanza della rivoluzione operata dallo stoicismo, secondo cui non esiste alcun rapporto diretto fra parole e cose.. Questa é un'idea che gli stoici possono provare con grande facilità, considerando come parole diverse possono indicare lo stesso oggetto. Per un italiano é chiaro cosa significa il termine «cavallo», ma per uno straniero questo é un suono senza alcun significato, come horse lo é per chi non conosce l'inglese. La prima conclusione é che, da sole, le parole non hanno il potere di indicare nulla, per usarle bisogna possedere il loro significato, ossia ciò che rimane immutato in ogni traduzione.
Per comprendere come funziona il linguaggio bisogna quindi analizzare tre elementi che concorrono a determinare l'uso delle parole:
1) La cosa significata é il referente reale, ossia l'oggetto cui eventualmente il significante si riferisce.
2) Il significante é il nome, il suono delle parole, la pura e semplice associazione di determinate vocali e consonanti che formano una parola.
3) Il significato é il concetto della cosa, l'idea, il contenuto razionale che rende possibile la comunicazione fra lingue diverse.
I primi due elementi, in quanto corporei, sono sempre reali: le cose infatti sono costituite da materia e le parole da suoni e grafemi. II significato, invece, non ha niente di corporeo, sebbene operi da collegamento necessario fra gli altri due elementi. La grande scoperta degli stoici é che bastano significante e significato a determinare un segno linguistico. La relazione con le cose, e quindi con il mondo reale, é possibile ma non necessaria. Esistono infatti molte parole cui non corrisponde niente nella realtà, fisica o spirituale che sia e altre possono indicare cose che forse esistono e forse no (il sostantivo «marziano», ad esempio). Dal punto di vista linguistico e grammaticale non é affatto necessario che vi sia una qualsiasi relazione fra linguaggio e mondo. Per questo motivo la lingua é un ottimo strumento per mentire.
L'innovazione introdotta dagli stoici ha importanti e feconde conseguenze. Permette loro di distinguere per la prima volta due aree del sapere da sempre confuse e sovrapposte: la grammatica e la logica. La prima studia le regole attraverso cui le parole possono essere connesse fra loro. Esistono tante grammatiche quante sono le lingue, perché, pur essendo la grammatica una scienza, le regole grammaticali che essa studia non hanno in sé un motivo razionale. Non esiste alcuna ragione specifica, a parte la consuetudine data dal comune possesso del codice linguistico, che regoli in una frase la posizione di verbo e soggetto, tanto é vero, ad esempio, che in inglese il verbo segue di norma il soggetto, in latino lo può precedere oppure seguire, e in tedesco, nelle subordinate, é posta dopo il soggetto e i complementi. La logica studia il significato complessivo, che, al di la dell'ordine in cui si susseguono le parole, rimane immutato in tutte le lingue ed é questo significato che ha a che fare con la razionalità.
La frattura tra parola e significato, tra grammatica e senso, conduce gli stoici a un approccio alla logica diverso da quello aristotelico. Certamente anche la logica stoica parte da premesse per arrivare a conclusioni e considera validi i ragionamenti coerenti, in cui cioé le conclusioni derivano necessariamente dalle premesse, indipendentemente dalla verità di fatto di queste ultime. Ma mentre Aristotele usava come premessa un concetto di genere, servendosi poi del sillogismo per verificare quali concerti di specie sono da questo deducibili (perché in esso inclusi), gli stoici assumono come premesse proposizioni ipotetiche, derivando da esse conclusioni altrettanto ipoteticamente vere o false. In altri termini: la macchina logica aristotelica era ontologicamente impegnata verso la realtà: é giusto pensare che Socrate dovrà un giorno morire, perché questa é la conseguenza necessaria di due premesse la cui verità conosciamo dall'esperienza, cioè «tutti gli uomini sono mortali» e «Socrate é un uomo». La macchina logica stoica, invece, permette di analizzare proposizioni che hanno con la realtà un rapporto solo ipotetico o addirittura nullo (ad esempio: «se Socrate avesse le ruote, non sarebbe un uomo ma un carretto»). Per questo, secondo gli stoici, il sillogismo aristotelico é utile solo come strumento di verifica per scoperte già avvenute e come una «prova del nove» per accertare se l'ordine del pensiero rispecchi l'ordine della realtà. Al contrario, la logica inferenziale é uno strumento produttivo, perché permette di indagare la possibile verità di eventi non empiricamente osservabili (ad esempio: «se il surriscaldamento del pianeta continuerà, vi saranno molti disastri naturali»).
Come il sillogismo aristotelico, anche il ragionamento ipotetico si sviluppa in tre tappe:
1) la premessa maggiore, consistente in un'ipotesi espressa dal «se ... allora …»;
2) la premessa minore, consistente in una constatazione di fatto che afferma o nega una delle due proposizioni semplici contenute nella premessa maggiore espressa dal «ma é…»;
3) la conclusione, consistente in una inferenza espressa dal «quindi …».
L'esempio caro a Crisippo é questo: «Se é giorno, allora c'e luce. Ma é giorno, quindi c'e luce».
Vi sono quattro forme logiche possibili del ragionamento ipotetico, a seconda delle diverse constatazioni di fatto enunciate dalla premessa minore, secondo il seguente schema:
Forme del ragionamento ipotetico
Forme valide
Affermando si afferma:
Premessa Maggiore: Se p allora q;
Premessa Minore: Ma é p;
Conclusione: Quindi q;
Esempio:
Premessa Maggiore: Se é un metallo fonde;
Premessa Minore: Ma é un metallo;
Conclusione: Quindi fonde
Negando si nega
Premessa Maggiore: Se p allora q;
Premessa Minore: Ma non é q;
Conclusione: Quindi non p;
Esempio:
Premessa Maggiore: Se é un metallo fonde;
Premessa Minore: Ma non fonde;
Conclusione: Quindi non é un metallo;
Forme non valide
Affermazione del conseguente:
Premessa Maggiore: Se p allora é q;
Premessa Minore: Ma é q;
Conclusione: Nulla ne consegue;
Esempio:
Premessa Maggiore: Se é un metallo fonde;
Premessa Minore: Ma fonde;
Conclusione: Nulla ne consegue;
Negazione dell’antecedente
Premessa Maggiore: Se p allora q;
Premessa Minore: Ma non é p;
Conclusione: Nulla ne consegue;
Esempio:
Premessa Maggiore: Se é un metallo fonde;
Premessa Minore: Ma non é un metallo;
Conclusione: Nulla ne consegue;
Le prime due forme, gli scherni di ragionamento detti in logica «Affermando si afferma» e «Negando si nega», sono concludenti e portano a una conclusione coerente. Le altre due forme, dette «Affermazione del conseguente» e «Negazione dell'antecedente», non portano ad alcuna conclusione logicamente sostenibile, quindi nulla ne consegue. Applicando la classificazione all'esempio di Crisippo, le forme non valide derivano dal fatto che ci può essere luce (q), magari grazie a una candela accesa, anche se non é giorno (p).
La gnoseologia: dalla sensazione alla rappresentazione catalettica
L'inferenza ipotetica scopre le implicazioni necessariamente deducibili da un'ipotesi; che questa ipotesi sia poi reale o fittizia non ha alcuna importanza ai fini della coerenza del discorso. Ne ha tuttavia quando si passa dal campo propriamente logico a quello scientifico, perché si pone una questione cruciale: come si fa a stabilire se e quando un'ipotesi é vera? In altri termini, la logica inferenziale può considerare la frase «se i marziani esistono, ciò che ho visto può essere un'astronave», ma il problema cruciale é: a quali condizioni si può supporre che i marziani esistano realmente? Per rispondere é necessaria una gnoseologia, ossia una teoria della conoscenza in grado di verificare quando e come i contenuti mentali di cui si occupa la logica aderiscono alla realtà
A volte l'origine di una parola é molto istruttiva. Diciamo abitualmente di comprendere (letteralmente «prendere insieme») le idee che ci vengono proposte, o addirittura di poterle afferrare. Pare che a inventare tali espressioni figurate sia stato Zenone. Mostrando la mano destra con le dita aperte, diceva: «questa é la rappresentazione», ossia le impressioni fisiche registrate dagli organi di senso. Poi, contraendo un poco le dita: «questo é l'assenso», ossia l'atto mentale che accetta le impressioni, trasformandole in una compiuta e significativa immagine mentale. Stretta poi la mano in un pugno, continuava: «questa é la comprensione», ossia l'attività intellettuale che categorizza un oggetto come appartenente a una classe concettuale e quindi lo comprende nel suo significato. Concludeva infine afferrando con la sinistra la propria mano destra, stretta a pugno, indicando con ciò la scienza, ossia il possesso di un sapere saldo e ben argomentato. Come per Epicuro, anche per gli stoici fondamento di ogni attività intellettiva sono le sensazioni, ossia gli stimoli provenienti dall'ambiente, che producono impressioni sui nostri organi di senso.
Comune alle due scuole é anche l'idea che a questo livello di conoscenza, prettamente sensoriale, non si possano produrre errori: la retina sul fondo dell'occhio non può certo formare immagini sbagliate. Ma qui si fermano le somiglianze. Secondo gli stoici, infatti, le rappresentazioni concettuali che la mente forma in corrispondenza delle impressioni non sono necessariamente vere, come invece sostiene Epicuro. Fondamentale risulta l'atto dell'assenso, un libero giudizio della mente che avvalora la rappresentazione stessa, o la smentisce, oppure ancora rinuncia sia ad affermare sia a smentire. Solo dopo essere passata dal filtro del libero assenso una rappresentazione può essere detta «catalettica» ed essere assunta come valida.
L'atto mentale dell'assenso alle rappresentazioni costituisce il punto cruciale della gnoseologia stoica. Qui si decide il valore e il significato di ciò che é stato registrato dalla sensazione. Gli stoici consigliano di affrontare questo momento cruciale attenendosi al criterio dell’evidenza e con il quale si deve concedere il proprio consenso solo alle impressioni evidenti, in sé non contraddittorie, percepite in uno stato di coscienza affidabile (non in sogno, quindi, e neppure da ubriachi o in un delirio febbrile). La facoltà di acconsentire o meno alle sensazioni rimane comunque una funzione delicata. Criteri troppo elastici potrebbero avvalorare impressioni false: chi fosse già convinto dell'esistenza dei marziani, ad esempio, potrebbe confondere più facilmente una nuvola con un'astronave. Ma d'altra parte criteri troppo rigidi potrebbero letteralmente impedire di vedere: chi partisse dal dogma che i marziani non possono esistere potrebbe anche «non credere ai propri occhi» quando ne vedesse uno.
I latini traducono il termine di rappresentazione catalettica con il termine di fantasia comprensiva; il termine greco originario, kataleptikos, significa «atto a prendere, a comprendere». Una rappresentazione é detta «catalettica», e può quindi essere assunta come vera e obiettivamente corrispondente all'oggetto rappresentato, quando possiede un’assoluta evidenza e ha ottenuto l'assenso del soggetto, cioè non appare contraddittoria rispetto ad altre sensazioni. A ogni rappresentazione catalettica deve necessariamente corrispondere un oggetto reale, perché non é possibile avere un'idea chiara ed evidente di una cosa che non esiste. Mentre il termine assenso é usato dagli stoici per distinguere, all'interno di una rappresentazione, il sentire dall'acconsentire. Ogni sensazione si basa infatti su due elementi:
- l'arrivo a uno dei cinque sensi di stimoli fisici provenienti dall’ambiente;
- un libero atto della mente, l'assenso, che accetta, rifiuta o sospende ii giudizio su questa impressione.
Più lo stimolo é forte e chiaro, più probabile sarà l'assenso; più lo stimolo é confuso, più decisivo diventa l'atteggiamento verso di esso.
La fisica: organicismo e panteismo
Con un approccio ben diverso da quello scientifico moderno, gli stoici chiamano fisica una complessiva visione della natura tutta deducibile da un unico principio base: il mondo é un sistema totalmente razionale. Ogni cosa che esiste, e il cosmo nel suo complesso, hanno una ragione per essere come sono; esprimono una necessità e sono, per così dire, «intrisi di logos». Nel linguaggio stoico é indifferente usare i termini «ragione», «Dio», «logos», «spirito», «vita», «natura» o «pneuma»: sono tutti sinonimi. Trasformando una nozione comune della cultura scientifica greca in un principio fisico e teologico, il logos é identificato con il pneuma cosmico, un «vento caldo e spirituale», universalmente diffuso, tramite il quale la divinità dà vita al cosmo nel suo complesso e singolarmente a ogni essere che lo abita, vivificandolo, ordinandolo e dirigendolo.
Per quanto sottile ed etereo, il pneuma é una sostanza corporea. Ciò significa che anche le cose all'apparenza immateriali sono, in realtà, corpo. Lo stoicismo professa un rigido materialismo: corporea é la materia, come corporeo é il pneuma. E se le sostanze materiali sono quattro (terra, acqua, aria e fuoco), ognuna delle quali é un aggregato di particolari forme atomiche (cubi, sfere, piramidi), il pneuma altro non é che una quinta essenza, una materia molto sottile, ancora più invisibile dell'aria e più evanescente del fuoco, formata da piramidi acutissime e per questo capaci di penetrare o attraversare ogni altro corpo. Di questa sfuggente natura é fatto tutto ciò che solitamente si definisce spirituale: l'anima, i sentimenti, le emozioni e il pensiero, logica e razionalità comprese.
La divinizzazione del pneuma implica una serie di rilevanti conseguenze. Prima fra tutte il panteismo, cioè la coincidenza di divinità e natura. Il pneuma divino é per cosi dire la natura della natura, ossia quella legge che opera internamente in ogni cosa facendo sì che essa sia quella che é, Dio é una forza razionale immanente a ogni cosa.
Nella concezione stoica ogni cosa possiede un'anima perché partecipa del pneuma. E tutti gli oggetti che compongono il cosmo possiedono un'anima, non solo quelli viventi, cioè inseriti in un ciclo biologico di nascita e di morte, ma anche quelli semplicemente esistenti. Anche la materia nelle sue forme più semplici partecipa dell'anima pneumatica: cosa, altrimenti, spingerebbe le gocce d'acqua alla forma sferica? Cosa, se non un logos immanente, fa sì che certi minerali cristallizzino in perfette forme geometriche? Tutto é dotato di vita, anche ciò che per sua natura non é capace di movimento. E’ vero che i sassi non si muovono, ma non per questo in essi il pneuma é del tutto assente; semplicemente si manifesta in forma passiva, come resistenza al cambiamento, in ciò che chiamiamo coesione della materia. Rompere un sasso é faticoso perché bisogna vincere una forza che si oppone alla rottura.
Ogni cosa é quindi un essere vivente, anche i carpi celesti. In quanta partecipano del pneuma universale, anche la Terra, la Luna e i pianeti sono esseri viventi. Gli stoici considerano il pianeta su cui abitiamo come un sistema integrato di fenomeni, in cui ogni parte é in relazione con tutto il resto come in un organismo biologico. E’ un approccio che oggi chiameremmo ecologico, in cui la natura e la Terra nel loro complesso sono considerate qualcosa di vivo, se non altro perché possono morire. Ma ciò che nella mentalità moderna é una semplice metafora, é inteso dagli stoici in senso letterale: la Terra, come tutti i carpi celesti, é un grande animale, sulla cui pelle si muovono gli uomini.
Il principio organicistico si applica a ogni gradino della scala degli esseri e quindi anche al cosmo: l'intera realtà nel suo complesso deve essere considerata «un grande animale».
Il vitalismo organicistico con cui lo stoicismo pensa la natura ha conseguenze in campi del pensiero diversi dalla fisica, determinando, ad esempio, l'idea di una ciclicità del tempo e quindi di un ripetersi della storia del mondo. Se la Terra e il cosmo sono animali, allora conosceranno anche la morte. Tutto ciò che é vivente, infatti, é destinato a perire. Ma se d'altra parte il mondo é eterno, nel senso che esiste da sempre e sempre esisterà, ne consegue che dopo ogni morte segue una rinascita. Anche il cosmo vive una vita fatta di stagioni. Ciclicamente nasce, si sviluppa, decade e muore. Ogni fine di un ciclo avviene attraverso il fuoco, in una conflagrazione universale che si verifica ogni 36 000 anni circa, cui segue una reintegrazione che dà origine a un nuovo ciclo di vita. Gli stoici chiamano questo ristabilimento apocatastasi o palingenesi. Nel corso dei periodi fatali l'universo intero va' in fiamme e quindi si inizia una nuova costituzione del mondo. Tutto termina con un fuoco primordiale che, come un seme, ha in sé tutte le ragioni e tutte le cause degli esseri che furono, che sono e che saranno.
Il paragone posto da Zenone tra il fuoco primordiale e il seme é più di una semplice metafora. Secondo gli stoici, infatti, sotto l'influsso del pneuma che lo anima, ogni essere si sviluppa secondo un piano prefissato, come un seme dà origine a una pianta. Nel linguaggio d'oggi potremmo dire che nel seme é incluso un programma il cui svolgimento darà origine alla pianta. Gli stoici spiegano lo stesso concetto parlando di «ragioni o cause seminali», volendo con ciò indicare quegli elementi di razionalità immanente che, presenti in ogni cosa, ne determinano l'evoluzione. Dunque ogni mutamento é sempre predeterminato, effetto di specifiche cause che l'hanno prodotto. Ogni cosa non poteva non diventare ciò che attualmente é, proprio come da un seme di pioppo non può svilupparsi una quercia. Portando il principio sul piano cosmogonico, cioè relativo alla nascita dell’universo, la conclusione é che nel fuoco primordiale sono già presenti, anche se non ancora operanti, tutte le cause che durante la crescita del mondo produrranno ogni forma di divenire. Ogni evento, anche il più insignificante, é sempre necessario (non poteva non realizzarsi) e predeterminato (non poteva essere diverso da ciò che é).
L’idea che il nostro sia solo uno dei tanti mondi che ciclicamente si susseguono nel tempo infinito é un patrimonio comune alla cultura greca. Tuttavia, connettendosi all'altra idea, prettamente stoica, che tutti questi mondi siano totalmente e minutamente dominati dalla razionalità, essa porta a un’invenzione originale: l'eterno ritorno.
Dato che gli stessi processi devono produrre gli stessi risultati, tutto rinasce esattamente come nel ciclo precedente o seguente, attraverso un successivo alternarsi di distruzione e rinascita. Nell'apocatastasi, al rinnovarsi del Grande Anno del mondo, tutto si ripeterà persino nei minimi particolari: vi sarà un nuovo Socrate, esattamente simile a quello che conosciamo, che di nuovo berrà la cicuta, e cosi via.
In polemica con gli epicurei, gli stoici insistono sulla non esistenza della casualità. Tutti i fenomeni della natura sono collegati fra loro dalla legge di causa-effetto, quindi nulla accade accidentalmente. Se la concatenazione degli avvenimenti avviene seguendo un ordine logico, necessario e prefissato, al1ora in ogni suo istante l’universo sarà sempre il prodotto necessario degli stadi precedenti.
Chiamiamo casuale ciò di cui ignoriamo 1a causa, ma Ia nostra ignoranza non implica affatto che tali cause non esistano. Con queste argomentazioni, lo stoicismo dà dignità filosofica alla nozione di fato, all’idea cioè che gli avvenimenti che si svolgeranno nel futuro siano già scritti. Ogni uomo ha quindi un proprio destino, un avvenire personale non alterabile e non modificabile tramite la volontà.
E’ quindi saggio professare il fatalismo, concedere il proprio assenso a1 corso degli eventi e conformarsi razionalmente ad esso.
Una conseguenza di queste teorie é l'ammissione della possibilità di conoscere il futuro. Se infatti una persona conoscesse a fondo le cause seminali agenti nel presente potrebbe riuscire a prevederne i risultati. Gli stoici ammettono quindi la mantica, l'arte della predizione divinatoria del futuro, come scienza possibile e almeno teoricamente giustificata. D'altra parte essi fanno notare che solo un uomo enormemente sapiente, in grado di intendere le vere necessità che stanno agendo nel presente dietro le apparenze potrebbe realmente divinare il futuro.
L'etica: ragione e felicità
Lo stoicismo pone a fondamento della propria proposta etica l'osservazione che tutti gli esseri tendono a realizzare pienamente sé stessi e raggiungono questo obiettivo ponendosi in sintonia con l'ordine divino e perfetto che regola l'intero universo. Per I'animale ciò significa seguire l'istinto, per l'uomo seguire la ragione. L'essere umano, infatti, é un'eccezione unica: in esso il logos si esprime sia come tendenza alla conservazione e alla sopravvivenza, come negli animali, sia come razionalità cosciente e consapevole. II bene morale (la virtù) é ciò che esalta il logos, ossia la nostra intima natura; al contrario il male morale (il vizio) é ciò che lo danneggia.
Dall'esercizio dell'etica, ossia dall'uso pratico della ragione, deriva la felicità, che gli stoici considerano un bene prezioso, concordando in ciò con Epicuro. A differenza di quest'ultimo, però, non credono che la felicità possa essere immediatamente perseguita e posta come obiettivo dell'esistenza. Essi affermano che la felicità e il piacere possono darsi solo come conseguenza, come un risultato dell'azione virtuosa. L'unica felicità possibile é la soddisfazione, la pace interiore che nasce dalla consapevolezza di aver compiuto in ogni caso il proprio dovere, ossia di aver posto il proprio comportamento sotto la guida della ragione. L'invito che lo stoicismo rivolge a ogni uomo é quindi riassumibile nella massima fondamentale di vivere secondo natura, ossia vivere secondo ragione. L'intera etica stoica consiste in una disamina dei significati espliciti e impliciti di questa massima.
Se gli stoici invitano a seguire la ragione é perché sono consapevoli che, di fatto, gli uomini non la seguono o la seguono solo in parte; nonostante da essa dipenda la loro stessa felicità. Gli individui si comportano in modo autolesionistico, inseguendo obiettivi irraggiungibili, desiderando ciò che non potranno mai avere e lasciandosi dominare dalle passioni: da cui derivano tutte le loro angosce. La ragione fondamentale di questo comportamento é che in moltissimi adulti la razionalità é malata perché corrotta dal vivere nella società, che instilla nella loro mente false opinioni, suggerisce falsi valori e offre pessimi esempi spacciandoli come atti di santità o eroismo. La terapia stoica si pone quindi come recupero della natura originaria dell'uomo, come ripristino di una condizione iniziale di salute. Come Epicuro anche gli stoici invitano a prendere il bambino come modello. Questo non vuol dire che propongano di comportarsi in modo infantile. Al contrario, essi pensano che fino a 14 anni, ovvero fino a quella che allora era considerata l’età della ragione, il bambino sia più simile a un animale che a un uomo. Solo con la maturità si diventa capaci di un autogoverno razionale della propria persona e quindi consapevoli soggetti etici. Ma ogni età ha la sua ratio e la determinazione di ciò che si addice alla propria natura cambia in ogni fase della vita.
Ciò che il modello dei bambini indica é che vi é in ogni individuo un innato orientamento verso il bene. Afferma Epitteto: «veniamo al mondo senza avere nessuna nozione naturale del triangolo rettangolo, del diesis e del semitono; ma le apprendiamo ciascuno mediante l'insegnamento tecnico... Del bene e del male, invece, del bello e del brutto, di ciò che si addice e non si addice, della felicità, di ciò che ci conviene e ci si adatta, di ciò che bisogna fare e non fare, chi viene al mondo senza avere la nozione innata?» (Diatribe, II, 11, 2-4, p. 109). La terapia stoica fa leva su questa fondamentale ragionevolezza di base per curare i guasti prodotti dal vivere in una società malata. Quindi, secondo gli stoici, un uomo adulto e sano di mente, estraneo alle convenienze sociali e non corrotto da cattivi maestri, non darebbe alcuna importanza a valori effimeri o negativi quali la ricchezza o il potere.
La razionalità, che nel bambino si esprime come un orientamento innato verso l’autoconservazione, diventa nell'adulto comprensione dell'ordine che regge il mondo e quindi coscienza del proprio dovere. E’ merito degli stoici l'aver per primi analizzato la nozione di «dovere». Doverosi sono tutti gli atti che rispondono all'ordine razionale dell'esistenza, che esprimono un comando della coscienza, ossia della voce della ragione che parla all'interno dell'anima. Nella coscienza di aver sempre adempiuto al proprio dovere, ossia di aver vissuto in sintonia con il logos che domina l'universo, sta la vera e unica felicita concessa all'uomo.
Vivere secondo ragione, per gli stoici, significa vivere esclusivamente secondo ragione. Ciò comporta che emozioni e sentimenti, in quanto fonte di errori per la ragione, dovrebbero essere estirpati dall'animo, o per lo meno tenuti sotto strettissimo controllo. Non a caso gli stoici descrivono il loro insegnamento come una specie di chirurgia spirituale. Tutte le passioni andrebbero completamente sradicate dall'animo umano, non limitandosi a quelle abitualmente considerate negative. Non bisogna lasciarsi trascinare dall'odio, ma neppure dall'amore. Si deve evitare l'invidia, l'ira, la gelosia, ma anche la pietà, la compassione e la misericordia. Tutte sono passioni, quindi vizi dell'anima.
Ricercando l'atarassia, ovvero l'eliminazione di ogni forma di turbamento emotivo, lo stoico·affronta la vita lasciandosi guidare solo dalla ragione. Si sposa e rispetta la moglie, si affeziona ai figli, dà volentieri il suo contributo per risolvere i problemi della comunità a cui appartiene, svolge cioè una vita il più possibile normale e virtuosa, ma rimane sempre impassibile dentro di sé, distaccato dalla propria condizione. Nulla può scalfire la sua intima pace. Se anche la sua vita dovesse mutare, tanto nel bene quanto nel male, rimarrebbe comunque indifferente. La felicità é l’assenza di ogni passione, la capacità di rimanere intimamente inalterabile. E’ questo il senso ultimo dell'imperturbabilità del vivere stoico, che permette al saggio di accettare la schiavitù e la tortura senza perdere la serenità, ma che gli fa anche accogliere la notizia della morte di un·figlio, come nel caso di Zenone, con un commento incredibilmente freddo: «Sapevo di averlo generato mortale» (Cicerone, Tuscolane, III, 30, p. 295). Questo ideale di vita può sembrare nello stesso tempo irrealizzabile e arido. Ci si può chiedere se sia veramente possibile estirpare ogni tipo di sentimento dall'animo umano e se l'individuo che raggiunga questo obiettivo possa definirsi ancora «uomo». La cultura moderna ha sviluppato una teoria molto diversa sulla cruciale questione della natura delle emozioni. La mentalità contemporanea assume come ovvi una serie di principi che ovvi non sono se non altro perché gli stoici erano di parere contrario. Per noi le emozioni provengono dal lato «animale» della personalità, che poco ha a che vedere con la capacità di formulare giudizi razionali. Esse sono intese come reazioni corporee, innate e indifferenti all'apprendimento, impulsi ciechi in grado di trascinare l'individuo anche contro i suoi ragionamenti, le sue convinzioni e persino la sua intelligenza. Il modo con cui gli antichi pensano le emozioni era ben differente.
La filosofia stoica, ma anche quella epicurea e la mentalità ellenistica in genere, ipotizzano una natura cognitiva delle emozioni, sottolineando la loro stretta dipendenza da determinate credenze o convinzioni. Contrariamente agli istinti, come la sete e la fame, dietro a ogni passione vi sono sempre convinzioni che la determinano. Per gli stoici non esiste una parte irrazionale dell'anima, da cui nascerebbero le passioni. Queste possono essere generate solo da un cattivo uso della ragione stessa. Si prenda ad esempio l'ira, una passione cui gli stoici, Seneca in particolare, dedicarono analisi approfondita. E un'emozione distruttiva, capace di travolgere la razionalità e di produrre modificazioni fisiologiche involontarie (battito cardiaco accelerate, rossore del visa ecc.), ma in realtà si fonda su una serie di giudizi. Perché l'ira scoppi bisogna che il soggetto sia convinto: 1) di aver subito un torto da qualcuno; 2) che si tratti di qualcosa di importante; 3) che ci sia stata una deliberata volontà di offendere; 4) che sia necessaria una qualche ritorsione. Se anche uno solo di questi giudizi viene a mancare o cambia, cessa o cambia anche l'emozione connessa. Si pensi, ad esempio, a quanto velocemente l'ira svanisce quando si scopre che il torto subito ci é stato inflitto senza alcuna malizia.
Dal greco ataraxia, letteralmente «assenza di turbamento», questa concezione indica una condizione di imperturbabilità (calma, impassibilità, indifferenza), definibile anche come capacità di non soffrire. E perseguita da tutte le scuole ellenistiche, che però non concordano sul modo per raggiungerla. Gli epicurei raccomandano di attenersi ai piaceri stabili, gli stoici suggeriscono di estirpare le passioni dall'animo, gli scettici di sospendere ogni giudizio e i cinici di abolire ogni bisogno. Ciò che si é detto per l'ira vale per tutte le passioni: timore, odio, amore, pietà ect. Sono emozioni, ma si determinano solo in rapporto a ciò che il soggetto razionalmente pensa sia utile o nocivo, importante o secondario, voluto o fortuito. Sono questi giudizi di ragione a determinare le convinzioni su ciò per cui vale la pena emozionarsi. Su questa considerazione si basa la possibilità stoica di modificare effettivamente il comportamento umano, controllandone l'emotività. Si tratta di sottoporre a revisione critica il proprio sistema di valori: le emozioni cambieranno di conseguenza. Cogliendo la necessità delle cose, si cesserà di avere paura, cogliendone la futilità, si cesserà di amarle. In ogni caso, l'atteggiamento effettivamente assunto sarà sempre condizionato dal sistema di giudizi, opinioni e credenze del soggetto. Se agire sulle emozioni direttamente nel momento in cui scoppiano é impresa ardua, é invece possibile modificarle e prevenirle con l'educazione intellettuale e l'esercizio dell'autocontrollo.
La possibilità di un controllo razionale delle passioni é ribadita dagli stoici, in sede di analisi psicologica, con la dottrina dell'assenso.
Se questo libero giudizio della mente condiziona persino le percezioni del mondo esterno, a maggior ragione, sembra plausibile che l'assenso risulti determinante nella sfera emotiva. Ogni passione, anche quella più travolgente, necessita sempre di un atto di libera decisione del soggetto, perché anche in campo etico, come in quello logico, più che le cose in sé contano i significati. Un danno subito rimane oggettivamente quello che é, ma la connessa convinzione di aver subito un torto, e quindi di dover reagire in modo punitivo, dipende solo dal modo con cui il soggetto interpreta liberamente l'esperienza. Senza assenso, del resto, non vi sarebbe libertà: l'uomo sarebbe costretto a reagire agli stimoli come gli animali.
Se la valutazione dell'aspetto etico di un'azione va' attribuita solo alla competenza razionale, ne consegue che ciò che non ha relazione con la ragione é estraneo all'ambito morale. Tutto ciò che é relativo al corpo deve essere dunque considerato con indifferenza. In genere consideriamo positive la salute, la bellezza, la ricchezza, la longevità ecc., mentre ci affanniamo a evitare il loro contrario, la morte, il dolore, la bruttezza, la povertà, ecc. II saggio é completamente indifferente a tutte queste cose. Egli ha naturalmente una preferenza per le cose positive, ma solo quando il loro conseguimento non richieda il minimo sforzo. Dovendo scegliere se essere ricco o povero, lo stoico sceglierebbe la ricchezza, ma non concederà un grammo della sua energia per diventare ricco.
Poiché é fondata sulla ragione, l'etica stoica aspira ad essere, in un certo senso, una scienza. E come in ambito logico non é possibile che un'affermazione sia quasi vera o falsa, così in ambito morale non esistono comportamenti quasi virtuosi o viziosi. Un codice etico non può ammettere mezze misure. Si tratta di una scelta di vita: o si é virtuosi o si é viziosi, senza stadi intermedi. Come per una persona che muoia sommersa nell’acqua, non importa se ciò avvenga poco lontano dalla superficie o nelle profondità degli abissi, così chi si avvicina alla virtù senza praticarla, non é tanto diverso da chi non ha neppure iniziato tale cammino. Allo stesso modo non é possibile stabilire una gerarchia delle colpe, perché hanno tutte la stessa gravità.
La facoltà dell'assenso si esercita in due modi: come accettazione della necessità provvidenziale che governa tutte le cose e, di conseguenza, come rifiuto di ogni situazione in cui l'autodeterminazione razionale diventa impossibile, mettendo così a repentaglio la stessa dignità umana. Una tirannide politica, ad esempio, può cercare di costringere i sudditi a comportamenti contrari al logos. Come deve agire il saggio in queste occasioni? La risposta degli stoici é radicale: il valore dell'autodeterminazione va considerato superiore a quello della vita stessa e ciò rende doveroso il suicidio quando nessun'altra soluzione é possibile. Altre situazioni tali da rendere impossibile l'esercizio dell’autodeterminazione, e quindi risolvibili solo con il suicidio, sono la riduzione in schiavitù e il disfacimento fisico e mentale prodotto da patologie degenerative o dalla semplice senilità. Dei primi tre grandi scolarchi dello stoicismo, ben due, Zenone e Cleante, si suicidano all'età di circa settant'anni.
Particolarmente importanti, e nettamente divergenti dal modello epicureo, sono le dottrine stoiche relative all'impegno sociale e politico. Mentre per Epicuro il cattivo influsso della società può essere combattuto solo con la fuga dalla società stessa, gli stoici non perdono mai di vista l'orizzonte necessariamente sociale in cui può attuarsi la salvezza dell'individuo. E’ vero che le passioni, origine di tutte le angosce, nascono da falsi giudizi di valore socialmente acquisiti, dai cattivi maestri e dai pessimi esempi, ma proprio per questo é necessario l'impegno nel miglioramento della società. L'uomo non é fatto per «vivere nascosto», come suggeriva Epicuro, é per natura un animale socievole e per questo realizza pienamente sé stesso solo nell'ambito di una comunità. Il saggio stoico sarà quindi un buon marito e un buon padre di famiglia, si impegnerà attivamente nel miglioramento della comunità cui appartiene e, come cittadino del mondo, non esiterà a sostenere i diritti violati di popolazioni straniere. Farà tutto ciò senza perdere la sua imperturbabilità, quindi senza farsi intimamente coinvolgere, ma la sua sarà comunque una vita attiva e piena.
Questa comunità di appartenenza non coincide necessariamente con la cittadinanza, come accadeva nella cultura tradizionale delle polis greche prima della conquista macedone. Sebbene il luogo di nascita sia per tutti oggetto di un affetto particolare, la propensione alla socialità non si ferma davanti alle mura della propria città. Con gli stoici si afferma per la prima volta nella storia dell'Occidente l'ideale cosmopolitico. II logos, la legge di natura, non ha sedi privilegiate in alcun popolo; é uguale per tutti, non ci fa cittadini di questo o quello Stato particolare, ma cittadini del mondo. Svuotando di significato tutte le dottrine politiche legate al sangue, alla nobiltà e alla razza, gli stoici affermano che non possono esistere popoli o individui schiavi per natura, come invece aveva sostenuto Aristotele. Esiste una fondamentale uguaglianza fra gli uomini e tutti possono ambire alla virtù e alla felicità che ne consegue, nessuno escluso. L'idea dell'essere umano come cittadino del mondo é intesa da alcuni stoici come un‘incitamento ad abolire le nazioni e a istituire un nuovo ordinamento mondiale. Secondo Plutarco (45-125 d. C.) l'ideale di città formulato da Zenone si fonda sull'idea che non si debba vivere divisi per città e villaggi, ciascuno sotto le sue particolari leggi, ma che tutti gli uomini debbano sentirsi compatrioti e concittadini. Uno per tutti deve essere il modo di vita e l'ordinamento, come lo é di una schiera ordinata, animata da una sola legge comune. Non é chiaro se Zenone auspichi l'istituzione di un unico Stato; ciò che é comunque importante é l'insistenza·sul fatto che ogni essere umano, in quanto tale, dovrebbe considerarsi unito al resto dell’umanità.