Lezione 32 - La filosofia dell’Ellenismo 3: lo Scetticismo e l’Eccletismo.
Classi 3°A/B/C Linguistico - Lez. 32
Lo Scetticismo
Pirrone non fonda una vera e propria scuola organizzata sul tipo di quella stoica o epicurea, ma si pone a capo di un movimento filosofico, un indirizzo di pensiero non rigidamente strutturato in una dottrina. I discepoli sono legati a lui non da vincoli gerarchici, ma dalla semplice ammirazione per il suo stile di vita. Non viene loro richiesta alcuna particolare condotta, perché lo scettico non si differenzia apertamente dagli altri uomini e, al contrario degli epicurei, vive senza problemi in mezzo a loro. Tutto ciò non significa però che non vi siano punti in comune fra lo scetticismo, dal greco scépsis, e gli altri indirizzi filosofici.
Questo termine greco, da cui deriva «scetticismo», indica una posizione filosofica polivalente, in cui confluiscono un atteggiamento positivo e uno negativo.
Il primo consiste nella “ricerca”, ossia nella necessità di porsi le domande sulla verità del mondo e dell’uomo. Il secondo consiste nel «dubbio», ossia nella consapevolezza di come sia impossibile arrivare a una decisione definitiva sul contenuto di verità di ogni conoscenza.
Anche lo scetticismo pone al centro della riflessione le questioni dell'esistenza e della felicità, prefiggendosi di assicurare all'anima quella stessa imperturbabilità che tutti i filosofi ellenisti cercano. Ciò che differenzia lo scetticismo dall'epicureismo e dallo stoicismo non é il fine assegnato alla filosofia, ma il metodo suggerito per raggiungerlo.
Sesto Empirico (180-220 d.C.) riassume la ricetta scettica con una massima all'apparenza contraddittoria e paradossale: «né perseguire né evitare alcunché». La ragione é che ogni infelicità deriva da qualche turbamento. E tutti gli sconvolgimenti provengono agli uomini dal fatto di perseguire intensamente qualcosa o dal fatto di evitare intensamente qualcosa. Anche epicurei e stoici concordano sulla ragione delle cause dell'infelicità, da ricercare nel turbamento emotivo. Ma essi dissentono sulla paradossale conclusione scettica, che invita a non operare alcun tipo di scelta; cioè, letteralmente, a non cercare nulla e non sottrarsi a nulla. Certamente essi concordano sul fatto che alcuni valori, quelli falsi ed effimeri come il denaro, il successo e la salute, sono da evitare, ma per loro ciò si può fare solo sostituendo tali valori sbagliati con altri giusti: la ricerca del vero piacere per gli epicurei, l'obbedienza al senso del dovere per gli stoici. Secondo gli scettici ciò si deve evitare. Tutti i valori vanno posti sullo stesso piano e tutti ugualmente negati: non vi é fra loro differenza alcuna, perché sono tutti espressione di un desiderio. Si può desiderare il danaro come si può desiderare la felicita, la virtù o la santità: Ia soluzione infatti non é desiderare le cose giuste, ma non desiderare più nulla; é questa la vera condizione dell'imperturbabilità.
Oltre che dei valori e delle opinioni, gli scettici si occupano delle sensazioni, negando che anche in questo ambito si possano raggiungere criteri definitivi di validazione. In particolare criticano la fiducia riposta dagli stoici nelle rappresentazioni catalettiche, dimostrando con argomenti dialettici (cioè argomentando pro e contro una determinata tesi) che non c'é alcuna rappresentazione che non possa essere falsa. La funzione del sapiente, quindi, non é quella di dare l'assenso a una rappresentazione qualsiasi, ma quella di astenersi da qualsiasi assenso. Rifacendosi a Socrate, si può affermare che l'unica certezza su cui il filosofo possa contare é quella di sapere di non sapere.
Lo scetticismo possiede dunque una carica fortemente distruttiva: intende liberare il soggetto non solo dai desideri fasulli ma anche dalla preoccupazione di cosa sia giusto e cosa sbagliato. Ma abolire ogni forma di convinzione etica non é facile: bisogna dimostrare che non é possibile trovare una differenza fra un modello di vita giusto e uno sbagliato, qualunque sia il valore in essa perseguito. E’ un punto che gli scettici non si rifiutano affatto di affrontare; al contrario, considerano l'impossibilità di stabilire ciò che é giusto e ciò che é sbagliato come il punto cardine di tutta la loro dottrina. Pensano, infatti, che sia sufficiente, per giungere a tale conclusione, osservare l’inconcludenza di tutte le filosofie. Ogni scuola parte affermando che, mentre gli errori sono molteplici, la verità é sempre una sola; poi presenta la propria dottrina, l'unica vera e la sostiene con argomenti e prove almeno apparentemente inconfutabili. Ma dato che queste supposte verità sono diverse da scuola a scuola e fra loro incompatibili, é evidente che esiste una fallacia di fondo nella pratica filosofica Non possono esistere molteplici verità e quindi non esiste alcuna verità.
Se non esistono verità sicure e nemmeno probabili, se ogni cosa può essere vera o falsa e, in ogni caso, non c'e modo di capirlo, cosa deve dunque fare il filosofo? Deve smettere di giudicare, sospendere ogni opinione (epochè) e praticare la difficile virtù della afasia, ossia del silenzio. «Afasia» (dal greco aphasia) é propriamente ii nome di un disturbo psichico consistente nella perdita parziale o totale de/la capacità di usare o di comprendere il linguaggio. Per gli scettici indica ii silenzio conseguente al rifiuto di rispondere a/le questioni teoretiche proposte dalle scuole dogmatiche.
In campo etico la carica liberatoria che può derivare da questa nozione é dirompente. Se nulla é certo, se bisogna diffidare di ciò che sembra bene perché potrebbe tramutarsi in male e viceversa, si raggiunge facilmente quella condizione di indifferenza al mondo e alle sue tragedie perseguita in vario modo da tutte le filosofie ellenistiche. Rinunciando a capire i1mondo, il saggio scettico si limita a organizzare la propria esistenza sui binari dell'equilibrio e della saggezza pratica.
Attenendosi al modello medico comune a tutte le scuole ellenistiche, gli scettici sottolineano come epochè e afasia siano argomenti purgativi, capaci cioè di distruggere se stessi assieme al male che intendono curare. Gli argomenti delle altre scuole, al contrario, hanno un effetto tossico, poiché, se risolvono determinate patologie dell’anima, d’altra parte ne introducono di nuove, causate proprio dal farmaco usato, come il dogmatismo, l'autocolpevolizzazione che nasce dal non aderire a sufficienza a modelli prestabiliti, etcc. Sesto Empirico paragona il medico che per liberare il paziente da una pleurite, provoca una polmonite, al filosofo che introduce un turbamento al posto di un altro. Lo scettico riconosce la difficoltà della propria proposta: vivere senza certezze e senza scopo non é facile, perché psicologicamente sembra esistere un vero e proprio bisogno di credere in qualcosa, di pensare che la vita abbia un senso, quale che sia. Proprio a questo serve la filosofia: ad abituare la mente a sopportare la nuullificazione dei valori, a non attaccarsi ad alcuna supposta verità, a non proporre alcun ideale.
Ad allenare 1a mente alla non facile arte della sospensione di ogni giudizio servono i tropi, una serie di argomentazioni contro l'idea di verità, da usarsi sia come stimoli per riflessioni più ampie, sia come strumenti di polemica contro i filosofi dogmatici. II primo tropo suggerisce di considerare le nostre rappresentazioni sensibili in confronto con quelle di altri animali. Il fatto che tutti noi vediamo il mondo in un certo modo ci induce a credere che questa nostra rappresentazione sia vera e oggettiva, l'unica possibile. Ma un cane vede molto peggio di un uomo, anche se é capace di sentire suoni che noi non udiamo, odori che per noi non esistono, colori che non fanno parte del nostro mondo visivo. A differenza di quanta sostengono stoici ed epicurei, le sensazioni non offrono affatto evidenze incontestabili perché dipendono dalla struttura degli organi di senso, variabile secondo la specie.
Ci si può chiedere a questo punto quale tipo di esistenza il filosofo scettico sceglierà di vivere. Sarà una vita senza valori, senza porsi alcun obiettivo o ideale, senza credere in nulla e senza sperare o temere nulla. Lo scettico professerà di essere senza inclinazioni, senza opinioni, e vigilerà sulla propria mente perché non ne produca. Interrogato su questioni di filosofia dogmatica reagirà con il silenzio e l'indifferenza. Se costretto dagli eventi a prendere una decisione qualsiasi, professerà il conservatorismo: fidandosi sempre della tradizione, delle consuetudini e delle leggi positive, opterà per quelle soluzioni che, essendo le più praticate e le più antiche, contengono meno possibilità di errore. Si abituerà a pensare che ogni cosa é in un certo modo ma potrebbe anche essere in un altro, e quindi ciò che bisogna fare é lasciarsi vivere. Forse la sua non sarà una vita eroica, ma di certo non soffrirà di una serie di mali che affliggono il resto dell'umanità: la preoccupazione del bene e del male, l'angoscia di dare un senso alla propria vita, il rimorso di non aver fatto il proprio dovere, il rimpianto di aver perso un'occasione, il desiderio d'essere diversi. Vivendo in questo modo, può essere che la felicità accada, cioè giunga inaspettatamente e immotivatamente. E’ solo una possibilità, non una certezza: lo scettico non cerca la felicita ma neppure la evita.
Pur non raggiungendo mai un numero di seguaci paragonabile a quello delle altre scuole filosofiche, lo scetticismo é stato ugualmente influente sulla cultura greca e romana. Ciò avviene per due motivi principali.
1) Da una parte lo scetticismo dà voce nel modo più coerente e radicale al senso di crisi tipico dei tempi: come la spedizione di Alessandro dimostra che anche i regni ritenuti più solidi possono essere travolti, così la critica pirroniana dimostra che anche le dottrine più articolate non possono mai essere del tutto esenti da contraddizioni e arrogarsi il monopolio della verità.
2) D'altra parte, però, lo stesso Pirrone dimostra che é comunque possibile vivere una vita dignitosa, anche in questa condizione di estrema crisi dei valori tradizionali. E’ in fondo un messaggio rassicurante e importante anche per coloro che nella dottrina scettica non credono: se persino Pirrone, negatore di ogni certezza, dimostra che l'imperturbabilità é comunque possibile, allora v'é ragione di sperare.
La filosofia a Roma
A partire dalla metà del II secolo a. C. i contatti fra Roma e la Grecia, ridotta al rango di provincia romana dopo la distruzione di Corinto (146 a. C.), diventano stabili e intensi, favoriti sia dall'interesse della nuova borghesia romana all'estensione dei rapporti commerciali con il Media Oriente, sia dal bisogno dell'aristocrazia di andare oltre la cultura tradizionale, chiusa e provinciale, per assimilare un sistema di pensiero in grado di fornire solide basi alle nuove dimensioni dell'azione politica. A questo incontro lavorano i gruppi più avanzati del patriziato, in particolare il circolo degli Scipioni, ma non mancano resistenze dell'ala più tradizionalista, rappresentata da Marco Porcio Catone (234-149 a. C.). Il primo contatto é comunque disastroso. Nel 155 il filosofo scettico Carneade di Cirene (214-128 a.C.) é invitato a Roma per spiegare cosa sia la filosofia greca, della quale ancora si sa ben poco. Tiene due conferenze, nella prima delle quali dimostra con validi argomenti l'esistenza della giustizia, mentre nella seconda, con argomenti altrettanto validi, ne dimostra l'inesistenza. E’ un modo per illustrare il principio scettico dell'impossibilità di raggiungere la verità, ma lo scandalo é enorme, in particolare negli ambienti senatoriali. I Romani non capiscono il senso della dimostrazione e senza mezze misure invitano Carneade ad andarsene. La caratteristica principale della ricezione della filosofia greca da parte degli intellettuali romani é l'eclettismo. Rifiutando di aderire a uno specifico indirizzo di pensiero, essi cercano di individuare un minimo comune denominatore di tutte le diverse dottrine, da assumere come significato ultimo e unitario dell’intera sapienza greca. Formatosi nello studio di tutte le più importanti componenti del pensiero greco, Marco Tullio Cicerone (106-43 a. C.) nasce ad Arpino e viaggia fra Atene, Alessandria e Rodi, dapprima ascoltando le lezioni dell'eclettico Antioco di Ascalona (140-130 - 67 ca. a. C.), poi quelle degli epicurei Fedro e Zenone di Sidone (entrambi del II secolo a.C), per passare infine a quelle dello stoico Diodoro (11 secolo a.C.). Le sue opere filosofiche, scarsamente originali dal punto di vista teoretico, si caratterizzano per uno sforzo compilatorio e riassuntivo, teso ad accordare le dottrine platoniche, aristoteliche e stoiche in un'unica sintesi finale. Solo nei confronti della dottrina epicurea, che giudica incompatibile con la tradizionale morale romana, Cicerone dichiara aperta ostilità.
A Cicerone si deve il tentativo di una giustificazione teorica della pratica eclettica. Dalla convinzione che il mondo greco abbia già sviluppato tutte le opzioni teoriche possibili, conclude che alla filosofia non rimane più alcuno spazio di elaborazione innovativa. Si tratta, adesso, di saggiare nella realtà le diverse dottrine postulate dai Greci, selezionando fra esse quelle più efficaci. Come criterio di validità per tale cernita, Cicerone invoca il principio del consenso universale dei dotti, a sua volta fondato sulla presenza di cognizioni innate universalmente diffuse, simili alle rappresentazioni catalettiche degli stoici. E questo fondo di verità che, a suo parere, permette di superare il dubbio scettico. Accanto a una relativa indifferenza per le sottigliezze dottrinali, é tipico dell'atteggiamento romano un notevole interesse per le conclusioni pratiche, sociali e politiche desumibili dalle teorie filosofiche. Cicerone, ad esempio, nel saggio Sulle leggi, passa in rassegna il pensiero dei maggiori filosofi greci per dedurre alcuni principi etici universali su cui si realizza l'unanime accordo. E in questa legge naturale egli individua il fondamento teorico del diritto romano, che fino ad allora si é sviluppato su basi essenzialmente pragmatiche.
Il punto di contatto fra la sapienza greca e gli interessi politico-giuridici romani é trovato nella retorica. Per Cicerone il filosofo non é il ricercatore puro e disinteressato della verità, ma il buon oratore, ossia colui che non solo possiede la cultura, ma sa anche utilizzarla nella pratica politica. Confondendosi con quella del retore, la figura del filosofo perde specificità, riducendosi a quella più generica dell'intellettuale, ossia del filosofo dilettante che apprende la sapienza greca da precettori privati e si limita a coltivarla in famiglia o nella ristretta cerchia di amici.
L'unico serio tentativo di introdurre la dottrina epicurea nell'ambiente romano si deve a Tito Lucrezio Caro (98 ca.-54 ca. a.C.), autore di un poema in esametri, Sulla natura delle cose, rimasto incompiuto per la sua prematura morte a poco più di quarant'anni. Il fatto che Lucrezio decida di esprimersi in poesia, una scelta del tutto inconsueta fra gli epicurei, mostra il suo intento di rivolgersi a un ampio pubblico, ben oltre i ristretti limiti della scuola. Egli ritiene, infatti, che il messaggio di liberazione lanciato da Epicuro contro ogni forma di paura e di superstizione mantenga intatta la sua validità anche nella società romana, che pure ha realizzato un grado mai visto di civilizzazione. Non si può dire che questo tentativo abbia avuto successo, perché l'epicureismo rimase sempre una tendenza marginale nella società romana, tradizionalmente diffidente verso le nozioni di ricerca privata della felicità e del disimpegno politico.
Lo stoicismo romano
A ottenere maggior successo nel mondo romano é la scuola stoica, la cui filosofia divenne il credo ufficiale dello Stato. Molti tratti dell'etica stoica, infatti, sono congeniali alla mentalità romana: il rigore morale, la nozione di dovere, la disponibilità al servizio nella res pubblica, il rispetto delle strutture gerarchiche della società, la visione.del mondo come una struttura ordinata e razionale, unitaria e cosmopolita. In generale, rispetto a quello greco originario, lo stoicismo romano é meno sistematico e rigoroso, più attento alle conclusioni pratiche, meno speculativo e più impegnato nella pratica della meditazione. Alcuni tratti specifici non ben assimilabili alla mentalità romana, come il fatalismo, sono messi in sordina.
Lucio Anneo Seneca nasce a Cordova nell'anno IV a.C. Figlio del retore Anneo Seneca, riceve un'ottima educazione, studiando in particolare la dottrina pitagorica e quella stoica. Diventa precettore dell'imperatore Nerone fino a che una congiura ordita da Messalina lo costringe all'esilio. Pur ritiratosi dalla politica attiva, nel 65 d. C. viene accusato, senza prove, di tramare ai danni dell'imperatore. Coerentemente con i principi etici che ha sempre sostenuto, si toglie la vita tagliandosi le vene. Scrive molte opere filosofiche, rimaste quasi per intero, i cui titoli sono indicativi dei suoi interessi: La provvidenza, L'ira, La vita beata, L’ozio, La tranquillità dell'anima. Più che un filosofo teoretico, Seneca é un fine psicologo e trova nella letteratura il mezzo espressivo a lui più congeniale: scrive numerose opere tragiche i cui eroi sono incarnazioni di principi etici: Hercules furens, Hercules Oetaeus, Agamennon, Medea e altre ancora.
“La realtà é come un fiume che scorre perennemente, le forze mutano, le cause si trasformano vicendevolmente e nulla rimane immutato” (Ricordi, IX, 28). E’ evidente in questa meditazioni sulla caducità delle cose terrene il richiamo alla dottrina di Eraclito. Essa però assume un senso nuovo se si pensa alla strana esistenza del suo autore, che si trova ad essere imperatore quasi per caso. Infatti, pur nato in una nobile famiglia romana, Marco Aurelio (121-180 d.C.) non ha alcun diritto di nascita al trono, cui arriva solo per esser stato adottato dall'imperatore Antonino. Quando questi muore, nel 161, a Vindobona (odierna Vienna), egli si trova a governare l'immenso Impero, pur essendo per indole più orientato alle meditazioni filosofiche che alle incombenze della politica. Affronta questa professione, che lo rende l'uomo più potente della terra, in perfetto spirito stoico, ovvero con il massimo dell'indifferenza possibile, vedendo in essa un dovere da compiersi con impegno e dignità, ma nulla di più. Le sue Meditazioni, scritte in lingua greca, ruotano attorno all'idea centrale di una fondamentale bontà del mondo e ancora oggi attirano numerosi lettori. L'atmosfera di intensa spiritualità che vi domina, infatti, supera a volte la stessa dottrina stoica per arrivare a intuizioni in qualche modo in sintonia con la cultura cristiana. Di sapore evangelico, ad esempio, é questa sua massima: «E’ proprio dell'uomo amare chi lo percuote».
Nato a Ierapoli in Frigia intorno al 50 d.C., Epitteto é portato a Roma come schiavo. Nonostante questa sua condizione, prima ancora di riacquistare la libertà si dedica allo studio della filosofia, aderendo allo stoicismo professato da Musonio Rufo (30-102 d.C.). Nel 92-93 l’imperatore Domiziano bandisce i filosofi, ed Epitteto é costretto a trovare rifugio a Nicopoli, nell'Epiro, dove il suo insegnamento ottiene notevole successo. In omaggio al modello socratico, Epitteto non scrive nulla. Conosciamo il suo pensiero tramite il resoconto che ne fece il suo discepolo Flavio Arriano di Nicomedia (uomo politico e storiografo vissuto nel II secolo d. C.), che dalle lezioni del maestro trae i Colloqui (o Dissertazioni, Diatribe) e il Manuale. Muore a Nicopoli nel 138 d. C.
Secondo Epitteto il fondamentale principio etico consiste in una distinzione fra cose che sono in nostro potere, ad esempio atti, opinioni, desideri, e cose che non sono in nostro potere e non possiamo quindi controllare. Tali sono, ad esempio, la statura, le fattezze del corpo e la sua salute, il luogo e il tempo di nascita, i parenti e la ricchezza familiare, la fama, la notorietà e altre cose simili. E’ ovvio che solo le cose in nostro potere dipendono dalla nostra volontà e sono quindi eticamente rilevanti; solo su di esse si misura la responsabilità morale, mentre nessun valore possono avere le altre, che il saggio non deve quindi tenere in considerazione alcuna.
Questa rigida dicotomia fra l'ambito della libertà e le incontrollabili determinazioni estreme annulla ogni possibilità di compromesso. In opposizione alle interpretazioni moderate della dottrina stoica, Epitteto sottolinea che non vi sono cose che siano «indifferenti» ma anche «preferibili». Ogni ambiguità in questo ambito può essere solo deleteria e aprire la via a un ritorno alle vecchie abitudini. Questa esigenza di rigore etico gli suggerisce l'idea che la differenza fra gli individui non vada misurata tanto sulle scelte specifiche quanta su una scelta di fondo. Ognuno é chiamato a decidere se vivere secondo ragione e libertà, dando importanza solo ai suoi atti spirituali, oppure annullare la propria libertà nella ricerca di falsi valori come la bellezza e la ricchezza. E’ una scelta di vita che ognuno é chiamato a fare, razionalmente, una volta per tutte. Tutto il resto é solo una conseguenza.
Fra le cose che non sono in nostro potere vi é il ruolo sociale, dato che la scelta fra qualsiasi professione é sempre condizionata da fattori al di fuori del nostro dominio, come lo status familiare, le opportunità concrete e così via. Con un tratto di pensiero molto diverso dalla nostra mentalità moderna, ma molto espressivo di quella stoica, Epitteto paragona ogni individuo all'attore di un dramma. Saggio é colui che riesce a vivere la propria vita come una rappresentazione, accettando con interiore distacco, e come é suo dovere, la persona che gli é toccato essere.
«Ricordati che tu non sei altro che l'attore di un dramma, il quale sarà o breve o lungo, secondo la volontà del poeta. E se a costui piace che tu rappresenti la persona di un medico, studia di rappresentarla acconciamente. Ugualmente se ti é assegnata la persona di uno zoppo, di un magistrato, di un uomo comune. Atteso che a te spetta solamente rappresentare bene qualsiasi persona ti é destinata; l'eleggerla appartiene a un altro» (Manuale, c. 37).