Lezione 4 - Giordano Bruno, Campanella e Pomponazzi.

 Classi 4° A/B/C Linguistico - Lez.4

Giordano Bruno: naturalismo e neoplatonismo.


La concezione naturalistica, secondo cui la natura costituisce il principio unico della realtà, nel Rinascimento è corretta dall'ammissione, accanto e prima della natura, di Dio, quale principio fondamentale e influenzata, anche in Bruno, come in Ficino, dagli scritti ermetici. Dio e natura vengono identificati, con l'affermazione di una concezione panteistica più o meno esplicita, come avviene in Cusano, Telesio, Bruno e Campanella. La divinità con la quale viene identificata la natura è concepita quale principio razionale, e non come una persona. La natura, di conseguenza, possiede leggi proprie, necessarie, presentando quindi caratteristiche di prevedibilità e di regolarità: in tal senso il naturalismo prepara la rivoluzione scientifica.

È proprio in tale scenario che si inserisce il pensiero di Giordano Bruno e la sua difesa della teoria copernicana. Copernico, affermando che la terra non è al centro dell'universo, ma il sole, cioè la teoria eliocentrica, demolisce le credenze tradizionali inerenti la cosmologia aristotelico-tolemaica, ponendo le basi di un sapere moderno e sganciato dalla religione.

Bruno, raccogliendo tali premesse, approfitta dell'invito a Londra del 1584, per esporre pubblicamente le tesi di Copernico durante il primo giorno di Quaresima, il mercoledì delle Ceneri. Da tale evento il filosofo di Nola trae spunto per scrivere i cinque dialoghi che compongono la sua famosa opera, intitolata appunto la Cena delle Ceneri, in cui ribadisce la propria concezione dell'universo, in accordo con la teoria copernicana. Se Copernico annulla la dicotomia tra mondo celeste e mondo sub-lunare, considerando la terra un pianeta tra i tanti, Bruno vede nella teoria eliocentrica l'opportunità di liberare il campo del sapere da qualsiasi superstizione e dall'accettazione acritica dei filosofi del passato, una liberazione morale dal principio di autorità, che era stato imposto sia dalla Chiesa, che rivendicava aspramente il suo ruolo di unica depositaria della verità, pretendendo così di avere l'ultima parola in materia non solo religiosa, ma anche conoscitiva, sia dagli intellettuali tradizionali, incapaci di aprirsi alla novità del pensiero e alla messa in discussione di un ordine cosmologico statico e irrazionale.

Bruno in tal modo, non rivendica soltanto la pretesa che le nuove conoscenze sostituiscano la tradizione, ma esplicita il bisogno che il sapere, e quello filosofico in particolare, si affranchi dalle verità religiose, dando vita ad un sapere laico e indipendente dal controllo invadente e censorio esercitato dalla gerarchia ecclesiastica.

La nuova cosmologia, a cui Bruno aderisce in modo entusiastico, è frutto di ricerca razionale e non può più essere monopolio di coloro che, basandosi sui Testi Sacri, vogliono imporre un freno, ideologico e pratico, al nuovo sapere che avanza.

Bruno non vuole contestare la centralità del ruolo di Dio, di cui l'universo è manifestazione, vestigio dirà Bruno, ma è necessario liberare la conoscenza da qualsiasi sudditanza al trascendente, ampliarla per indagare l'infinito. Dio rimane la causa della realtà, ma Bruno rivendica all'uomo il compito di poterla conoscere con i propri strumenti razionali, giungendo così a poter conoscere Dio stesso. La divinità per Bruno non è più quindi trascendente, ma è immanente alla natura e l'uomo, in quanto ne è l'espressione più compiuta, è esso stesso divinità.

Pur non essendo un astronomo, Bruno tenta di spiegare il moto apparente degli astri, anticipando Galileo, affermando che, stando all'interno di un sistema, non si può stabilire se esso si muova o sia in quiete. Così il moto apparente dell'intero universo intorno alla terra deve essere ricondotto al moto rotatorio della terra su sé stessa.

Bruno spiega poi l'infinità dell'universo, sulla scia di Cusano, rifacendosi al rapporto tra Dio e mondo, introducendo i concetti di causa e principio.

Mentre il principio diventa l'effetto che determina, come il seme rispetto alla pianta, la causa provoca un effetto, ma è completamente separata dall'effetto, come un falegname e il mobile da lui costruito. Dunque, dice Bruno, se Dio è principio, allora pervade il mondo ed è contenuto in esso, di conseguenza tutta la natura è animata, divina e la vita è in tutte le cose.

L'universo viene quindi concepito da Bruno in modo panteistico, come Uno-tutto, come totalità che da significato alle singole parti, come un unico organismo vivente che racchiude in sé tutto il divenire, rimanendo però immobile e identico a sé stesso. È appunto tale tesi dell'infinità dell'universo e della sua animazione, l'oggetto dell'opera De immenso del 1591, una delle ultime opere pubblicate prima del suo arresto.

In conseguenza a tutto ciò, Bruno ammette la pluralità dei mondi e della presenza di altri esseri viventi in altri mondi: la forza vitale della natura non conosce limiti e agisce ovunque, non solo nel nostro pianeta.

Anche per quanto riguarda la morale, Bruno parte dalla concezione che Dio è presente nell'universo infinito e animato e sia nello Spaccio della bestia trionfante, sia negli Eroici furori, affronta il problema del comportamento umano. 

Nello Spaccio della bestia trionfante, composto da cinque dialoghi, Bruno immagina che nei cieli Giove abbia convocato tutti gli dei allo scopo di liberare i cieli dalle bestie che, dando il nome delle varie costellazioni, rappresentano le false virtù e i vecchi valori da eliminare.

Bruno racconta che Giove sceglie di collocare al primo posto, tra tutte le virtù, la Verità, e accanto ad essa, che faccia sedere un'altra dea che ha due nomi: Provvidenza e Prudenza.

Essa è Provvidenza, in quanto rappresenta l'attività di Dio, è Prudenza, in quanto azione propria dell'uomo che, con il suo agire, può rapportarsi alla Provvidenza divina. L'Ozio, scacciato dai cieli, viene sostituito da un'altra divinità, la Sollecitudine, e l'Ozio allora fa un elogio dell'epoca d'oro in cui gli uomini vivevano tranquilli. Giove, invece, elogia la Sollecitudine, esaltando l'attività umana e lo sviluppo della civiltà: gli uomini dell'età dell'oro erano forse più felici e avevano meno vizi, ma Bruno fa dire a Giove che ciò non significa che gli uomini fossero più virtuosi.

Bruno sostiene, infatti, che l'uomo, operando con il proprio intelletto e con le proprie mani, diviene egli stesso creatore, al pari di Dio, nella sua opera di trasformazione e di conoscenza della natura. Bruno esalta così la sacralità del lavoro e dell'attività umana, rappresentandoli come strumenti per accostarsi a Dio. Se la natura è infatti manifestazione di Dio, attraverso cui l'uomo può arrivare a conoscerlo, perché Dio è immanente alla natura e opera al suo interno, allora l'uomo, trasformando la natura, può non solo conoscerla, ma divinizzarsi, rendersi simile a Dio.

Le aspirazioni umane, unite all'attività e al lavoro, sono indirizzate dall'amore che, muove verso i singoli esseri, ma grazie alla mediazione della conoscenza, rivolge l'uomo verso Dio. È appunto questo il tema trattato da Bruno negli Eroici furori.

Gli Eroici furori per Bruno rappresentano la tensione verso l'azione e la conoscenza che caratterizzano l'uomo: il termine eroici deriva da eros, nel significato platonico del termine, e caratterizzano la tensione spirituale verso il divino, inteso quale tentativo da parte dell'uomo di superare i propri limiti individuali. Gli eroici furori sono divisi in due parti, ognuna delle due composta da cinque dialoghi ciascuna: qui la filosofia è strettamente legata con la poesia, tutti i dialoghi sono infatti commenti di poesie di Bruno, di Luigi Tansillo, un poeta amico di Bruno, morto nel 1568, che compare anche in qualità di protagonista dei dialoghi, insieme ad un altro personaggio, tale Cicala o Cicada, non identificato. In quest'opera Bruno si allontana dal carattere pratico presente nello Spaccio della bestia trionfante, per avvicinarsi più al l'ideale platonico di purificazione, di liberazione del corpo dalle passioni, per giungere così alla contemplazione della verità. Il furore eroico è ansia di ricerca, superamento del mondo sensibile e della verità divina, declinando l'aspirazione umana verso l'infinito.




Naturalismo e magia: Campanella.


Se Bruno pagherà con la vita, morendo bruciato in Campo dei Fiori a Roma, l'innovazione delle sue teorie, Campanella scrive la maggior parte delle sue opere in carcere, dove starà sino al 1626, accusato di sedizione e di eresia

Il naturalismo di Campanella è influenzato sopratutto da Telesio, dal quale riprende in gran parte sia la fisica, sia il sensismo gnoseologico, ma subisce anche un forte influsso dal suo interesse per la magia, accentuando il vitalismo della natura, ma attenuando la concezione del sensismo, attribuendo un ruolo attivo al soggetto conoscente.

A differenza di quanto sostenuto da Telesio, per Campanella la sensazione ha bisogno di un punto di riferimento e presuppone un'altra conoscenza che la completi.

Secondo Campanella, infatti, noi non conosciamo le cose, ma le modificazioni che le cose producono in noi, quindi prima di tutto dobbiamo conoscere noi stessi.

La conoscenza sensoriale presuppone infatti la conoscenza di sé, quello che Campanella chiama sensus inditus.

La conoscenza dei sensi non è per Campanella così evidente e sicura, come invece lo era per Telesio, ma relativa ai cambiamenti che provoca in noi e quindi incerta, indiretta. Secondo Campanella occorre partire da un dato certo e sicuro, come la conoscenza di sé stessi, in quanto dentro di noi troviamo delle verità autoevidenti, le nozioni comuni: tali nozioni comprendono anche la conoscenza delle funzioni costitutive dell'anima o, come le chiama Campanella, le tre primalitá

Le primalitá, potere, sapere e volere, ricalcano lo schema della trinità, e non sono funzioni peculiari solo di Dio, ma di tutti gli enti, essendo la primalitá ciò che conferisce l'essenza ad ogni ente

Le primalitá caratterizzano per Campanella tutto l'essere e ogni essere: Dio stesso immette in ogni essere le primalitá, perché senza di esse l'essere non potrebbe esistere.

Per Campanella in natura tutto è animato e tutto è dotato di sensi. È appunto la sensazione che unifica e lega tutti gli esseri e che da vita ad un organismo unitario e integrato, l'universo appunto.

Tutti gli esseri interagiscono tra loro sulla base di sentimenti di simpatia e di antipatia, essendo consapevoli di sé e delle relazioni con il resto della natura.

La natura non solo ha senso, ma è anche consapevole del proprio fine ed opera per raggiungerlo. Campanella delinea quindi un teleologismo universale, un finalismo, che vede in Dio il termine ultimo, ma che individua nella natura la coscienza del proprio fine.

Nel mondo descritto da Campanella non c'è posto per le cause efficienti: ogni evento naturale avviene verso un fine e ogni essere opera per svolgere la propria parte nel progetto universale.


Pomponazzi: naturalismo e aristotelismo.


Se la maggior parte dei filosofi rinascimentali aderisce in qualche modo al neoplatonismo, tuttavia filosofi come Pietro Pomponazzi rappresentano voci discordanti dal coro.

Pomponazzi (1462-1525), si rifà esplicitamente alla filosofia aristotelica e riprende il problema dell'interpretazione della natura, quale asse portante del proprio pensiero.

Dopo la laurea in medicina conseguita a Padova, Pomponazzi insegna filosofia in diverse università, presentando un aristotelismo molto diverso da quello cristianizzato, interpretato da Tommaso d'Aquino.

Superando il rispetto formale per la religione cristiana, Pomponazzi pone in risalto, in modo esplicito, il dualismo esistente tra fede e ragione: il trattato, intitolato De immortalitate animae (sull'immortalità dell'anima), del 1516, rappresenta un'argomentazione razionale a favore della mortalità dell'anima. Pomponazzi rivendica la necessità di separare le ragioni della fede da quelle filosofiche: egli sostiene che esistono questioni che la ragione umana non può assumere e giustificare in termini razionali, sopratutto se inerenti alla fede. Ma nonostante questo, Pomponazzi non nutre alcun dubbio sul fatto che l'anima sia mortale, sottolineando che la credenza sull'immortalità dell'anima e sull'esistenza di una vita oltre la morte, possono giungere all'uomo solo da una rivelazione religiosa e non da un qualche argomento razionale.

Tommaso aveva sostenuto l'immortalità dell'anima, basandosi sulla sua assoluta indipendenza dal corpo; ma è proprio tale indipendenza che Pomponazzi non ammette, rifacendosi ai caratteri peculiari della conoscenza umana.

L'uomo infatti conosce la realtà utilizzando, in modo congiunto, l'intelletto e la sensibilità. Pomponazzi sostiene che solo le nature angeliche conoscono l'universale separato dalle cose particolari, mentre gli animali conoscono soltanto il particolare. L'uomo invece conosce l'universale, ma solo attraverso un'immagine particolare concreta. Poiché l'anima umana è intrinsecamente legata al corpo, non si può dunque per Pomponazzi sostenerne l'immortalità.

Secondo Pomponazzi quindi la tesi dell'immortalità dell'anima non è in alcun modo conciliabile con l'aristotelismo e del tutto ad essa estranea.

Pomponazzi rifiuta la convinzione secondo cui l'immortalità dell'anima è necessaria per controllare il comportamento umano, allo scopo di elargire premi e punizioni dopo la morte. 

La morale, per Pomponazzi, deve basarsi su considerazioni diverse: la virtù è accessibile a tutti e deve essere considerata quale premio a sé stessa, di conseguenza l'uomo giusto è felice senza alcun bisogno di ricompense esterne.

Pomponazzi sottolinea così la necessità che la morale umana sia totalmente sganciata dalla religione.

Un altro argomento, dice Pomponazzi, che viene spesso portato a sostegno dell'immortalità dell'anima, è dato dalle visioni e dai prodigi, che si crede confermino la permanenza delle anime dopo la morte. La risposta che Pomponazzi porta a sostegno della propria tesi, è che spesso si tratta di imbrogli e di illusioni, mentre in altri casi si tratta di fatti eccezionali, ma non soprannaturali, frutto dell'influenza degli astri.

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