Lezione 7 - Realismo politico e utopie: Machiavelli, Moro, Campanella e Montaigne.
Classi 4°A/B/C Linguistico - Lez. 8
Il realismo politico rinascimentale: realismo e utopia.
Introduzione.
Il pensiero politico rinascimentale si caratterizza per due tendenze apparentemente antitetiche: il realismo politico di Machiavelli e i racconti utopistici, talmente diffusi da costituire un nuovo genere letterario. Nonostante l'apparente distanza, i due approcci sono alimentati dallo stesso presupposto, cioè una società in rapida trasformazione che sta modificando via via sia le strutture sociali, sia i rapporti di potere.
Mentre il realismo politico cerca di indagare in modo accurato tali processi, cercando di fare un'accurata analisi scientifica, i trattati utopistici, da quello di Moro, che da il nome al genere, alla Città del Sole di Campanella, non mirano tanto ad un'analisi dell'attività sociale e politica quanto, facendo ricorso a descrizioni di luoghi immaginari, a una contestazione dei vecchi privilegi feudali e delle diseguaglianze sociali indotte dalla stessa trasformazione economica operata dalla borghesia.
Così se tali tendenze trovano espressione all'interno di istanze moderne orientate verso il riconoscimento dei diritti di libertà e di uguaglianza, dall'altro fa trasparire il profondo malessere di quei ceti sociali, come la gran parte della popolazione contadina, che sono penalizzati dall'attuale economia, così come dal perdurare degli antichi diritti feudali ancora presenti.
Non a caso, a tali rivendicazioni, si verifica un tentativo concreto di rivolta da parte dei contadini tedeschi che, guidati da Thomas Müntzer, riformatore politico e religioso tedesco, cercano di fondare concretamente una società egualitaria, tentativo che verrà represso nel sangue da parte dei principi tedeschi con l'avallo di Lutero.
Il realismo di Machiavelli.
Machiavelli parte dal presupposto che la politica debba essere totalmente sganciata dall'influenza esercitata su di essa sia dalla religione, che dalla morale, fondandonsi su principi propri e autonomi da queste. Tali presupposti sono la natura umana e la verità effettuale.
Machiavelli sottolinea come un abile politico debba conoscere la natura umana, non quale vorrebbe che fosse, ma quale essa è effettivamente: secondo lui gli uomini sono, infatti, fondamentalmente egoisti, ambiziosi e guidati dall'avidità, anche quando i motivi dichiarati delle loro azioni risultano essere altruistici. D'altro canto Machiavelli afferma che è del tutto inutile immaginare repubbliche che non sono mai esistite, ma è necessario, invece, esaminare le condizioni concrete in cui si sviluppa l'azione politica, quella che Machiavelli chiama verità effettuale, solo conoscendo la natura umana, quale essa è veramente, e la verità effettuale, il buon politico potrà costituire e conservare il proprio Stato. La conoscenza della verità effettuale, cioè della situazione di fatto, rappresenta ad un tempo sia uno strumento dell'azione politica, sia un presupposto metodologico della nuova scienza: di tale verità effettuale deve tener conto l'uomo politico, ma anche lo studioso che voglia comprendere e analizzare l'operato del politico, analizzandone le cause del suo successo o del suo fallimento.
L'uomo così, partendo da tali presupposti, può controllare, almeno in parte, la propria sorte e decidere del proprio destino. Nei Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio, del 1517, Machiavelli scrive che gli uomini possono assecondare la fortuna, piuttosto che opporsi ad essa, e utilizzarla per i propri scopi, una volta conosciute ed esaminate accuratamente le circostanze.
Poiché il corso degli eventi non dipende dall'uomo, ma dalla sua «virtù», (da vir = uomo), cioè dalla sua capacità di saper adattare il proprio modo d'agire agli eventi, sfruttando, quando possibile, gli eventi anche avversi, a proprio vantaggio: il termine virtù per Machiavelli viene spogliato da ogni valenza morale e religiosa, o filosofica, per intendere il controllo razionale degli eventi che il politico deve porre in atto per poter attuare i propri obiettivi.
La «fortuna», come Machiavelli chiama gli eventi che si verificano al di fuori del controllo umano, rappresenta un importante elemento di rottura rispetto al concetto di «provvidenza» cristiano: se la provvidenza è l'intervento di Dio nella storia, allora opporsi ad essa, rappresenterebbe, da parte dell'uomo, un tentativo non soltanto inutile, ma addirittura irrispettoso e blasfemo e tale concezione conduce inevitabilmente alla messa in atto di atteggiamenti di passività e di rassegnazione dinanzi agli eventi che risultano incomprensibili e al di fuori del controllo umano, atteggiamenti che caratterizzavano il mondo feudale medievale; concepire la fortuna come caso, implica invece una totale neutralità degli eventi che l'uomo vive e gli danno la percezione di poter su di essi esercitare una qualche forma di controllo, riconoscendo che esistono dei fatti nella storia che sono a lui incomprensibili e del tutto imprevedibili, risulta così legittimato qualsiasi tentativo di poter intervenire in essi allo scopo di trarne ogni possibile vantaggio.
Concepire la storia dell'uomo come asservita alla provvidenza, secondo Machiavelli, impedisce all'uomo di sentirsi quale protagonista attivo di essa e introduce un principio razionale che la spiega, ma anche la supera, impedendo quindi una oggettiva comprensione dei fatti storici: tutto ciò fa si che la storia non possa divenire una scienza interpretabile e verificabile mediante sue leggi proprie.
Rifarsi, invece, al concetto di fortuna, sostiene Machiavelli, significa riferire alla casualità e all'irrazionale gli eventi storici che diventano così indagabili in quanto frutto delle azioni umane e, in quanto tali, interpretabili secondo canoni razionali e scientifici che ne permettono l'indagine da parte dell'uomo: Machiavelli, riprendendo la nozione di homo faber fortunae suae, sottolinea quindi come anche all'interno della politica e della storia, è compito dell'uomo volgere il corso degli eventi a proprio vantaggio e lasciare l'impronta della propria volontà nel mondo.
La tesi centrale di Machiavelli riguardo al fatto che la politica debba essere fondata esclusivamente su proprie leggi, sganciate quindi da ogni vincolo morale e religioso, costituisce il tema centrale del suo trattato più importante intitolato Il Principe, scritto nel 1513, ma che verrà pubblicato postumo, dopo la morte di Machiavelli, soltanto nel 1532.
Nei primi capitoli del Principe Machiavelli esamina le diverse forme di governo e, successivamente, delinea le qualità essenziali che il politico deve possedere: da tali qualità dipende, infatti, la possibilità di creare e ingrandire lo Stato. Machiavelli non vuole necessariamente che il politico sia amorale, ma sottolinea che, mentre le sue doti morali, pur desiderabili, rappresentano un aspetto privato della vita di un politico, il possedere, invece, la virtù politica non lo è in quanto condiziona le esistenze sia degli uomini che governa, sia degli altri stati. Ciò che conta è quindi che il politico sappia agire per il bene dello Stato: Machiavelli infatti precisa che alcuni comportamenti che sono ritenuti virtuosi dalla morale, possono risultare dannosi invece per lo Stato, mentre comportamenti considerati inaccettabili dalla morale, possono essere utili invece nella guida di uno Stato.
La politica, quindi, deve essere autonoma dalla morale e la virtù del principe consiste nell'adattare la propria azione alla realtà in cui deve agire, tenendo conto della natura umana e del carattere degli individui con cui deve interagire per raggiungere i suoi obiettivi, della situazione interna e internazionale, delle forze in campo e dei rapporti di alleanza o di contrasto che esistono tra esse, allo scopo di poterne approfittare.
Nell'azione finalizzata alla costruzione di un nuovo Stato, Machiavelli sostiene che il principe non deve tenere in alcun conto i principi morali o religiosi dei suoi contemporanei: dal punto di vista politico, sarà giudicato «buono», tutto ciò che è efficace per conseguire lo scopo, «cattivo», tutto ciò che lo ostacola. Con ciò Machiavelli non nega in alcun modo la validità della morale, ma afferma la totale indipendenza della politica da essa.
Egli sostiene, inoltre, che non si tratti soltanto di tutelare i benefici a vantaggio del principe: un governo adeguato è in grado di garantire non soltanto la costruzione e la conservazione di uno Stato, ma anche la sua solidità, sicurezza e prosperità, influenzando in tal modo la vita di intere popolazioni. Se, per Machiavelli, il perseguire tali obiettivi rappresenta comunque un fine molto più importante degli strumenti «immorali» che il principe può decidere di utilizzare: quali l'assassinio, il tradimento, il furto, essi rappresentano per lui un male minore rispetto alla capacità del principe di assicurare il benessere di molti e giustifica che il principe non tenga conto dei principi morali. Tutto ciò non implica però che il principe persegua esclusivamente i suoi interessi e vantaggi personali, come la Chiesa incoraggerà a credere, nel tentativo di accentuare l'aspetto di cinismo e di immoralità nel pensiero e nelle opere di Machiavelli e di giustificare il loro inserimento nell'indice dei libri proibiti.
Machiavelli, per il suo Principe, si rifà a Cesare Borgia (1475/1507), che usa quale modello di principe spregiudicato e capace. Cesare Borgia, figlio naturale del Papa Alessandro VI Borgia, soprannominato il “Duca Valentino”, a causa del ducato di Valentinois che aveva ricevuto in dono dal re di Francia Luigi XII, tra gli anni 1499 e 1503, tenta di costruirsi un nuovo principato nell'Italia centrale. Con l'aiuto e l'appoggio del padre e dei francesi, Cesare Borgia inizia la conquista dei territori, appartenenti allo Stato della Chiesa, che erano stati usurpati da alcuni signori locali che avevano saputo approfittare della debolezza di controllo esercitata dal potere ponteficio: Imola, Forlì, Cesena, Rimini e Faenza vengono occupate ed assoggettate da Cesare Borgia e, successivamente, nel 1502, anche Urbino e Camerino. Cesare Borgia riesce quindi ad edificare dal nulla un nuovo principato tra la Romagna, l'Umbria e le Marche, usando tutti i mezzi possibili, compresi il tradimento, l'inganno e l'omicidio. Machiavelli fa di Cesare Borgia il modello del principe amorale, cui è lecito l'uso di mezzi di per sé riprovevoli dal punto di vista morale, ma dal punto di vista politico adeguati allo scopo di costruire uno Stato solido, scopo che Machiavelli giudica superiore a qualsiasi precetto di tipo etico.
In seguito, mentre Cesare Borgia progettava l'occupazione di Siena con l'intento di estendere progressivamente il proprio dominio anche alla Toscana, muore improvvisamente il Papa Alessandro VI Borgia, nel 1503, e dopo un breve interregno di Pio III, Papa in carica per meno di un mese, sale al soglio ponteficio il Papa Giulio II, proveniente dalla famiglia Della Rovere, nemici giurati dei Borgia. Cesare Borgia, così privato dell'appoggio paterno e vittima delle ostilità da parte del nuovo pontefice, perde rapidamente i propri domini e viene arrestato, su ordine del Papa, e trasferito da prigioniero in Spagna: da qui il Valentino riesce però ad evadere e muore in battaglia nel 1507, in Navarra, durante l'assedio della città di Viana.
Dal punto di vista dell'analisi politica l'indipendenza della politica dalla morale ha, per Machiavelli, sopratutto carattere metodologico: la politica si fonda quindi su principi autonomi, segue leggi proprie, sulla base delle quali si deve fondare l'azione politica affinché possa essere compresa. Pur sottolineando le finalità pratiche del trattato Il Principe, il cui scopo è quello di guidare l'azione del principe, la sua importanza filosofica risulta essere legata proprio alla nuova concezione della politica: lo studioso, quindi, che voglia comprendere ed analizzare l'operato politico di un governante dovrà prendere in esame non i suoi propositi o i principi morali, bensì i comportamenti concreti in relazione al contesto in cui si svolgono. Il riferimento alla verità effettuale, fatto da Machiavelli, rappresenta non solo, quindi, un suggerimento per chi voglia costruire o conservare uno Stato, ma anche l'indicazione sul piano empirico da cui deve partire l'analisi. La verità effettuale costituisce quindi l'insieme dei dati che lo studioso deve raccogliere prima di fare una qualsiasi valutazione. I comportamenti di un politico, quindi, devono essere valutati sulla base della loro razionalità e non rispetto alla moralità o alla giustizia. In nome della virtù di un principe, intesa come la sua capacità di adeguare il suo agire politico alla situazione di fatto, cercando di modificandolo se si rende necessario, Machiavelli condanna esplicitamente la morale cristiana, era di spingere l'uomo alla rassegnazione e al fatalismo, invece di aver fiducia nell'uomo e nella sua capacità di dominare la fortuna.
Se la virtù del principe aiuta nella conquista di un nuovo Stato, più difficile è la questione della sua conservazione: Machiavelli sostiene che ogni formazione politica tende a decadere se non è sostenuta da valori forti, che non sono però universali. È compito del principe, infatti, individuare quelli più adatti al popolo che lui amministra e usarli per rendere duraturo il proprio potere.
Machiavelli parla, a tale proposito, di riduzione ai principi: non esistono, infatti, per Machiavelli dei principi validi per ogni popolo, ma ognuno deve trovare quelli a lui più adatti, che Machiavelli afferma essere quelli di un dato popolo a cui quell'individuo appartiene: per l'Italia, infatti, i principi più adatti a cui fare riferimento, dice Machiavelli, sono quelli dell'antica repubblica romana.
Machiavelli auspica, infatti, che compaia un condottiero capace di unificare l'Italia allo scopo di sottrarla al controllo su di essa esercitato dalle nazioni più forti e più moderne come Francia, Spagna e Inghilterra, già divenute delle forti monarchie nazionali.
Per raggiungere tale obiettivo, si rende necessario il coinvolgimento del popolo e superare il frazionamento politico dell'Italia in tanti piccoli governi regionali.
La cultura rinascimentale vedrà in Machiavelli e nella sua opera un esempio di patriottismo, anche se ciò non era certo l'intento ideologico che muoveva il filosofo.
Il pensiero utopistico.
Il termine «utopia», che letteralmente significa non luogo, è un termine coniato da Tommaso Moro (1478/1535), avvocato e filosofo inglese, che da il titolo alla sua opera principale, Utopia, che sarà pubblicata nel 1516.
Tra il Cinquecento e il Seicento i racconti utopistici si diffondono, divenendo un vero e proprio genere letterario che, prendendo le mosse dalla Repubblica di Platone da un lato, e dai viaggi di esplorazione dall'altro, attraverso i quali giungevano notizie, spesso indirette e sommarie, sulle nuove popolazioni scoperte grazie ai racconti di marinai, viaggiatori ed avventurieri.
Nei racconti utopistici, a prescindere dai riferimenti filosofici e dalle informazioni dei viaggiatori, si esprime la critica serrata alla società dell'epoca, velata da un contesto fantastico finalizzato al mettere al riparo gli autori di tali opere sia dalla repressione politica, sia dal controllo ferreo dell'Inquisizione. Questa critica è rivolta al modello aristocratico e feudale della società presente ancora in buona parte dell'Europa. Ma un altro obiettivo della critica utopistica è rappresentato dalla corruzione della gerarchia ecclesiastica e dalla nobiltà che, perdendo ormai il proprio ruolo sociale a favore del ceto emergente della borghesia, risultano essere ancora strettamente ancorate a vecchi privilegi anacronistici. Un altro importante bersaglio dei racconti utopistici è rappresentato dalla nuova società borghese che, beneficiando delle ricchezze provenienti dalle nuove terre scoperte, come il continente americano per esempio, e della svalutazione dei prezzi di mercato, sta operando trasformazioni economiche e sociali sicuramente più radicali rispetto alla tradizionale società medievale. Tali trasformazioni economiche finiscono col creare nuove forme di povertà in rapida espansione che, più visibili rispetto a quelle esistenti nella società medievale, risultano essere legate alla disoccupazione dovuta alla crisi dell'agricoltura e dell'artigianato: ruoli, anche di prestigio, nella vecchia società, divengono ora marginali e acuiscono il malessere sociale già esistente.
Gli aspetti che accomunano l'isola di Utopia di Moro e la Città del Sole di Campanella riguardano l'assenza della proprietà privata, l'uguaglianza sociale e la giustizia.
Nella denuncia sociale ed economica dei racconti utopistici, oltre a dei progetti di natura riformistica, risultano essere presenti altri aspetti di valenza squisitamente filosofica quali l'esigenza di una ridefinizione del sapere sia per quanto attiene la sua organizzazione e sia rispetto alle sue finalità. Moro e, ancora di più, Campanella, a tale proposito, sottolineano l'importanza che il nuovo sapere sia indirizzato al miglioramento della qualità della vita umana, come sosterrà anche Bacone, in riferimento alla sua utopia tecnologica descritta nell'opera la Nuova Atlantide.
Tommaso Moro descrive l'isola di Utopia, dove non esiste la proprietà privata e i mali ad essa collegati, quali furti, omicidi, ecc. Ognuno ha ciò che gli serve per vivere e per soddisfare i propri bisogni, contribuisce al benessere comune attraverso il proprio lavoro che occupa però soltanto poche ore al giorno, lasciando a ciascuno il tempo libero da dedicare alle attività ricreative e allo studio. Gli abitanti di Utopia regolano i propri comportamenti sulla ragione e sui diritti naturali, libertà di parola e di libera scelta della propria fede religiosa e politica, e sono tolleranti nei confronti delle diverse scelte altrui. L'opera di Moro rappresenta anche una denuncia dei processi di modernizzazione sociale e, in particolare, del sistema delle recinzioni (enclosures), fenomeno all'epoca molto diffuso, che, privando i contadini delle terre coltivabili per adibirle a pascolo, costringevano i contadini a riparare nelle città, già sovrappopolate, dove aumentavano il numero dei nuovi poveri. Se il sistema del latifondo, infatti, beneficiava i ricchi possidenti terrieri, di solito nobili e aristocratici, nonché l'industria manifatturiera della lana, privava però i contadini dei propri mezzi di sussistenza.
L'Utopia politica di Campanella, descritta nella sua Città del Sole, composta nel 1602, si rifà ai rapporti platonici, descritti nella Repubblica, tra Stato e cittadini: alle tre primalità o facoltà dell'uomo, sapienza, potenza e volontà o amore, Campanella associa tre ministri, Pon, Sin e Mor, che sono rispettivamente i ministri dell'ordine e della difesa, Pon; il ministro della scienza e dell'educazione, Sin; il ministro della regolamentazioni delle unioni e delle nascite, Mor, che ricalca il modello platonico di controllo dei matrimoni e della selezione dei figli.
I ministri, secondo la descrizione fatta da Campanella, sono controllati dal Sole o Metafisico che coordina l'azione dei ministri e regge lo Stato. Anche nella Città del Sole non esiste proprietà privata e tutti lavorano solo quattro ore al giorno, avendo così adeguato tempo rimanente per dedicarsi allo studio e a tutte le attività di relax, necessarie alla realizzazione personale.
Dall'analisi dei racconti utopistici di Moro e Campanella emerge così chiaramente l'intento di rappresentare modelli sociali nuovi che, per quanto fantastici, non rappresentano soltanto una fuga dalla difficile realtà dell'epoca o una evasione dai gravi problemi legati all'ingiustizia sociale in essa presenti, quanto una vera e propria denuncia sociale e una forma di lotta politica e sociale aperta ferma dinanzi all'esigenza, fortemente sentita, di mettere in discussione gli assetti economici e di potere che pesavano, in modo quasi esclusivo, su una larga maggioranza della popolazione: se il realismo politico di Machiavelli rappresentava una denuncia esplicita di tale stato di cose e, insieme, una proposta di cambiamento sociale e politico, l'utopia rappresenta il versante di lotta e di critica, mediato dalla fantasia certo, ma altrettanto efficace di denuncia spietata nei confronti dei mali dell'epoca.
Lo scetticismo di Montagne e il Rinascimento europeo.
Nonostante la sua scelta di vita isolata e lontana dalla partecipazione diretta ai dibattiti dell'epoca, l'opera di Michel de Montaigne (1533/1592), è una delle più significative del Rinascimento francese e del nuovo clima culturale. Oggetto della sua riflessione è sopratutto il confronto tra l'uomo civilizzato europeo e l'uomo primitivo, alla luce delle nuove scoperte geografiche e dei problemi posti dalla colonizzazione di nuovi popoli da parte della civiltà europea. Il problema della diversità culturale viene affrontato da Montaigne come la necessità di confrontarsi con altre culture, diverse dalla propria, allo scopo di sottolineare la relatività dei valori di ogni cultura, compresa quella europea. Montaigne, infatti, spogliando i valori propri della cultura tipicamente occidentale ed europea dalla concezione della loro assolutezza, afferma che ogni cultura tende a produrre i propri valori e che essi sono l'espressione di un dato contesto sociale. Ciò rende relative tutte le culture e i valori che ne sono espressione, non giustificando quindi l'atteggiamento di superiorità sprezzante che l'uomo europeo, cosiddetto civilizzato, mostra nei confronti dei nuovi popoli che considera barbari e primitivi. Nei suoi Saggi, scritti nel 1582, che rappresentano un nuovo genere di divulgazione filosofica, Montaigne, con un linguaggio volutamente semplice e accessibile anche ai non letterati, critica apertamente tale pretesa supremazia dell'uomo civilizzato europeo: prendendo a riferimento la natura, quale principio originario, Montaigne rovescia tale confronto, preferendo di gran lunga l'uomo primitivo rispetto a quello civilizzato. Egli sostiene che l'uomo europeo utilizza una prospettiva centrata su di sé che porta a giudicare gli altri popoli e la loro cultura come «primitiva» e non civilizzata: prendere come punto di riferimento se stessi e le proprie opinioni, prevalenti nel proprio paese, secondo Montaigne, porta a disapprovare e temere come pericoloso ciò che è considerato diverso ed estraneo. Montaigne sottolinea che la civiltà ha allontanato gli uomini dalla semplicità originaria, che risulta, invece, essere presente nei cosiddetti «selvaggi».
Per Montaigne la rivalutazione dei popoli primitivi rappresenta l'occasione per osservare dall'esterno i valori e le convinzioni proprie della nostra civiltà allo scopo di mettere in discussione ciò che è accettato in virtù della tradizione, ma che non può essere accettato come giusto o come superiore. La critica di Montaigne non si limita ad affermare la relatività dei valori, ma che mette in discussione le certezze delle nostre conoscenze, attraverso un'analisi che porta allo scetticismo: l'uomo, infatti, non può conoscere se non attraverso sé stesso e quando presume di estendere l'ambito delle proprie conoscenze, egli tende ad assumere come modello di verità le cose che rientrano all'interno della sua esperienza diretta. Secondo Montaigne la filosofia non ci presenta la realtà delle cose così come sono, ma per ciò che essa stessa costruisce. Compito della filosofia è di dimostrare la vanità del sapere, in quanto tutte le conoscenze sono relative ed incerte, come è dimostrato chiaramente dall'esistenza di molteplici sistemi filosofici diversi, che risultano essere in contraddizione l'uno con l'altro. Secondo Montaigne l'uomo, con lo sviluppo della civiltà, non ha fatto altro che mascherare la propria incapacità di giungere ad un sapere certo, seguendo in ciò l'inclinazione della propria natura. Il linguaggio umano, secondo il filosofo, non è adatto ad esprimere il dubbio e se si vuole evitare ogni presunzione di certezza, secondo Montaigne, è necessario che l'uomo si interroghi continuamente circa il significato di ogni sua conoscenza, riconoscendone la sua relatività ed imperfezione.